Niccolò
Machiavelli
Discorsi sopra la Prima Deca
Di Tito Livio
(1513 - 1519)
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi
che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto
Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello
io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga
pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo
né voi né altri desiderare da me più, non vi
potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può
increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste
mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando io in
molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so quale di
noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi
avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei
scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto.
Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose
degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi
manda, che le qualità della cosa che è mandata. E
crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso
che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in
questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai
quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì
perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche
gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare
essere uscito fuora dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali
sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e,
accecati dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le
virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono
biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non
quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti
loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di
onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono
farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno
a stimare quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e
così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono
governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone
Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era
re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il
principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il
regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete
voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie opinioni Vi
siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria,
secondo che nel principio vi promissi. Valete.
1
Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città,
e quale fusse quello di Roma.
Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città
di Roma, e da quali latori di leggi e come ordinato, non si
maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli
mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello
imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima
il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli
uomini natii del luogo dove le si edificano o dai forestieri. Il primo
caso occorre quando agli abitatori dispersi in molte e piccole parti
non pare vivere securi, non potendo ciascuna per sé, e per il
sito e per il piccolo numero, resistere all'impeto di chi le
assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il nimico, non
sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare abbandonati
molti de' loro ridotti; e così verrebbero ad essere subita preda
dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da
loro medesimi, o da alcuno che sia infra loro di maggiore
autorità, si ristringono ad abitare insieme in luogo eletto da
loro, più commodo a vivere e più facile a difendere.
Di queste, infra molte altre, sono state Atene e Vinegia. La prima,
sotto l'autorità di Teseo, fu per simili cagioni dagli abitatori
dispersi edificata; l'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe
isolette che erano nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle
guerre che ogni dì, per lo avvenimento di nuovi barbari, dopo la
declinazione dello Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono
infra loro, sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a
vivere sotto quelle leggi che parevono loro più atte a
mantenerli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il
sito dette loro, non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli
popoli, che affliggevano Italia, navigli da poterli infestare:
talché ogni piccolo principio li poté fare venire a
quella grandezza nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una
città, nasce o da uomini liberi o che dependono da altri: come
sono le colonie mandate o da una republica o da uno principe per
isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel paese che, di
nuovo acquistato, vogliono sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle
quali città il Popolo romano ne edificò assai, e per
tutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da uno principe, non per
abitarvi, ma per sua gloria; come la città di Alessandria, da
Alessandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade
volte occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi
dei regni numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze,
perché (o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli
abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga
pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel
piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano: né
poté, ne' principii suoi, fare altri augumenti che quelli che
per cortesia del principe gli erano concessi.
Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o
sotto uno principe o da per sé, sono constretti, o per morbo o
per fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova
sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e' truovono ne' paesi
ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e' ne edificano di nuovo, come
fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la virtù dello
edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale è più
o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso
colui che ne è stato principio. La virtù del quale si
conosce in duo modi: il primo è nella elezione del sito; l'altro
nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini operono o per
necessità o per elezione; e perché si vede quivi essere
maggior virtù dove la elezione ha meno autorità; è
da considerare se sarebbe meglio eleggere, per la edificazione delle
cittadi, luoghi sterili, acciocché gli uomini, constretti a
industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessono più uniti
avendo, per la povertà del sito, minore cagione di discordie;
come interviene in Raugia, e in molte altre cittadi in simili luoghi
edificate: la quale elezione sarebbe sanza dubbio più savia e
più utile, quando gli uomini fossero contenti a vivere del loro,
e non volessono cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli
uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire
questa sterilità del paese, e porsi in luoghi fertilissimi;
dove, potendo per la ubertà del sito ampliare, possa e
difendersi da chi l'assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua
si opponesse. E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debbe
ordinare che a quelle necessità le leggi la costringhino, che il
sito non la costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed
hanno abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre
uomini oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a
quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio,
arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio a quelli
che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine,
vi sono diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali
naturalmente sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il regno
degli Egizi, che, non ostante che il paese sia amenissimo, tanto
potette quella necessità, ordinata dalle leggi, che ne nacque
uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla
antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più
laude che Alessandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la
memoria fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e
l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da
Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello
molti esercizi circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto
quanto essi temevano quell'ozio a che la benignità del paese li
poteva condurre, se non vi avessono con leggi fortissime ovviato. Dico,
adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile,
quando quella fertilità con le leggi infra i debiti termini si
ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città per
sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come e' la
poteva edificare sopra il monte Atho, il quale luogo, oltre allo essere
forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si darebbe
forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua
grandezza. E domandandolo Alessandro di quello che quelli abitatori
viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise, e,
lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli
abitatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese, e per
la commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adunque,
la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo
progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri; se
Romolo di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in
qualunque modo, la vedrà avere principio libero, sanza dependere
da alcuno: vedrà ancora, come di sotto si dirà, a quante
necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gli altri, la
costringessono; talmente che la fertilità del sito, la
commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello
imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la mantennero
piena di tanta virtù, di quanta mai fusse alcun'altra
città o republica ornata.
E perché le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio
celebrate, sono seguite o per publico o per privato consiglio, o dentro
o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra quelle
cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne di maggiore
annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto quello che da loro
dependessi; con i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa
prima parte, si terminerà.
2
Di quante spezie sono le republiche,
e di quale fu la republica romana.
Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto
il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle che
hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si
sono subito governate per loro arbitrio, o come republiche o come
principato: le quali hanno avuto, come diversi principii, diverse leggi
ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse, o dopo non
molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto; come
quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute
a caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma.
Talché, felice si può chiamare quella republica, la quale
sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia leggi ordinate in
modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa vivere
sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò
più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno tumulto
pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d'infelicità
quella città, che, non si sendo abbattuta a uno ordinatore
prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi. E di
queste ancora è più infelice quella che è
più discosto dall'ordine; e quella ne è più
discosto che co' suoi ordini è al tutto fuori del diritto
cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine. Perché
quelle che sono in questo grado, è quasi impossibile che per
qualunque accidente si rassettino: quelle altre che, se le non hanno
l'ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare
migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti diventare
perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza
pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una
legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città se non
è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non
potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil
cosa che quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una
perfezione d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze,
la quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di
Prato, nel dodici, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città
di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la condussero; dico come
alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno
de' tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e
come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di
questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e,
secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano
di sei ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri
siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che
vengono ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e'
soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da
questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a
quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno
all'altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico;
gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare
sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno
ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre
stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio
può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la
similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini:
perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi,
vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi,
moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi
meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse
più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo
ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone,
differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno
noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli
uomini, biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e
pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a
loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della
giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno
principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che
fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si
cominciò a fare il principe per successione, e non per elezione,
subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e,
lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a
fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e
d'ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il
principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto
dal timore all'offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo
nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e
congiure contro a' principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o
deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d'animo,
ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano
sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque,
seguendo l'autorità di questi potenti, s'armava contro al
principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E
quelli, avendo in odio il nome d'uno solo capo, constituivano di loro
medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata
tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo
ogni loro commodo alla commune utilità; e le cose private e le
publiche con somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi
questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la
variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo
stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia,
alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d'uno governo
d'ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad
alcuna civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro
come al tiranno; perché, infastidita da' loro governi, la
moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in alcun modo
offendere quelli governatori; e così si levò presto
alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora
fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello,
avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo rifare quel del
principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in modo,
che né i pochi potenti, né uno principe, vi avesse
autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio
hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma
non molto, massime spenta che fu quella generazione che l'aveva
ordinato; perché subito si venne alla licenza, dove non si
temevano né gli uomini privati né i publici; di
qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni
dì mille ingiurie: talché, costretti per
necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire
tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado
in grado, si riviene verso la licenza, ne' modi e per le cagioni dette.
E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si
sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne' governi
medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di
tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e
rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una
republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno
stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo
non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in
questi governi.
Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la
brevità della vita che è ne' tre buoni, e per la
malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli
che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo
ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che
participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più
stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima
città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.
Intra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più
laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi in
Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece
uno stato che durò più che ottocento anni, con somma
laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a
Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi
solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che, avanti
morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato; e benché,
dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse
Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare,
secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni,
ancora che per mantenerlo facessi molte constituzioni, per le quali si
reprimeva la insolenzia de' grandi e la licenza dell'universale, le
quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la
non le mescolò con la potenza del Principato e con quella degli
Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che
la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo
libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per
la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non
aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non
sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i
primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla
diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché
Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora
al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e
non una republica, quando quella città rimase libera, vi
mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E
avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio, per le cagioni e
modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito
due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero a cacciare di Roma
il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in
quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di
due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e
di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde,
sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che
di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella;
talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al
Popolo la sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli
restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella
republica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni
della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più
stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre
qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la
fortuna, che, benché si passasse dal governo de' Re e delli
Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime
cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per
dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle
qualità regie; ne si diminuì l'autorità in tutto
agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una
republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della
Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli largamente
si dimosterrà.
3
Quali accidenti facessono creare in
Roma
i Tribuni della Plebe, il che fece
la republica più perfetta.
Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne
è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi
dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli
uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello
animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e quando
alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta
cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si
conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre
d'ogni verità.
Pareva che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i
Tarquini, una unione grandissima; e che i Nobili avessono diposto
quella loro superbia, e fossero diventati d'animo popolare, e
sopportabili da qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo
inganno, né se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii
vissero; dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che la
Plebe male trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con
quella: ma, come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu
la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno
che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la
offendevano. La quale cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho
detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se non per
necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può
usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli
uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per
sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria
la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la
legge necessaria. Però mancati i Tarquinii, che con la paura di
loro tenevano la Nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo
ordine che facesse quel medesimo effetto che facevano i Tarquinii
quando erano vivi. E però, dopo molte confusioni, romori e
pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la Nobilità,
si venne, per sicurtà della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e
quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione, che
poterono essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e
ovviare alla insolenzia de' Nobili.
4
Che la disunione della Plebe
e del Senato romano fece libera
e potente quella republica.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in
Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di poi
alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata
una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona
fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a' loro
difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso
negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio
romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove
è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte
anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri
particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i
tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose
che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino
più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che
a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come
e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e
quello de' grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della
libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si
può vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii
ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma
rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano
per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica
divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in
esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò
pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né
si può chiamare in alcun modo con ragione una republica
inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li
buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione,
dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti
inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il
fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in
beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi
erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare
contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente
per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le
quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come
ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa
sfogare l'ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose
importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la
città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva
ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette cose, o e' non
voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli liberi
rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e'
nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere
oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il
rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando,
dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio,
benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e
facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il
vero.
Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e
considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella
republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti
furano cagione della creazione de' Tribuni, meritano somma laude,
perché, oltre al dare la parte sua all'amministrazione popolare,
furano constituiti per guardia della libertà romana, come nel
seguente capitolo si mosterrà.
5
Dove più sicuramente si ponga
la guardia della libertà, o nel
Popolo
o ne' Grandi; e quali hanno maggiore
cagione di tumultuare, o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le
più necessarie cose ordinate da loro è stato constituire
una guardia alla libertà: e, secondo che questa è bene
collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché
in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato
nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso a'
Lacedemonii, e, ne' nostri tempi, appresso de' Viniziani, la è
stata messa nelle mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu messa
nelle mani della Plebe.
Pertanto, è necessario esaminare quale di queste republiche
avesse migliore elezione. E se si andasse dietro alle ragioni ci
è che dire da ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro, si
piglierebbe la parte de' Nobili, per avere avuta la libertà di
Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo
alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de' Romani, come e' si
debbe mettere in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di
usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e
degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare,
ed in questi solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente,
maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di
usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari
preposti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne
abbiano più cura; e non la potendo occupare loro, non permettino
che altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spartano e
veneto, dice che coloro che mettono la guardia in mano di potenti fanno
due opere buone: l'una, che ei satisfanno più all'ambizione
loro, ed avendo più parte nella republica, per avere questo
bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l'altra, che
lievono una qualità di autorità dagli animi inquieti
della plebe, che è cagione d'infinite dissensioni e scandoli in
una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche
disperazione, che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno
per esemplo la medesima Roma, che, per avere i Tribuni della plebe
questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un
Consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da questo, ei vollono
la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi dell'imperio della
città: né bastò loro questo, ché, menati
dal medesimo furore, cominciorono poi, col tempo, a adorare quelli
uomini che vedevano atti a battere la Nobilità; donde nacque la
potenza di Mario, e la rovina di Roma. E veramente, chi discorressi
bene l'una cosa e l'altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse
eletto per guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di
uomini sia più nocivo in una republica, o quello che desidera
mantenere l'onore già acquistato o quel che desidera acquistare
quello che non ha.
Ed in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà
questa conclusione: o tu ragioni d'una republica che voglia fare uno
imperio, come Roma; o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso,
gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo,
può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel
seguente capitolo si dirà.
Ma, per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica
più nocivi, o quelli che desiderano d'acquistare, o quelli che
temono di non perdere l'acquistato; dico che, sendo creato Marco
Menenio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de' cavagli, tutti a due
plebei, per ricercare certe congiure che si erano fatte in Capova
contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di potere
ricercare chi in Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse
di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E
parendo alla Nobilità, che tale autorità fusse data al
Dittatore contro a lei, sparsono per Roma, che non i nobili erano
quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari ma
gl'ignobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù
loro, cercavano, per vie straordinarie, venire a quelli gradi, e
particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa
accusa che Menenio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie
dategli da' Nobili, depose la dittatura, e sottomessesi al giudizio che
di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne fu
assoluto: dove si disputò assai, quale sia più ambizioso
o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare; perché
facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di
tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono
causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in
loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare;
perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che
l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di più vi
è, che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e
maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più,
che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano, ne' petti di
chi non possiede, voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro
spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quelle ricchezze e in
quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.
6
Se in Roma si poteva ordinare uno
stato
che togliesse via le inimicizie
intra il Popolo ed il Senato.
Noi abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le
controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle seguitate
infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della rovina del
vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli
effetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali
inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione,
vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette
controversie. Ed a volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti
sono state lungamente libere, e vedere quale stato era in loro, e se si
poteva introdurre in Roma. In esemplo tra gli antichi ci è
Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate. Sparta
fece uno Re, con uno piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha
diviso il governo con i nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli
che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale
modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le
leggi: perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è
ora quella città, per le cagioni dette di sopra, molti
abitatori, come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere
insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di governo; e
convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della
città, quando parve loro essere tanti che fossero a sufficienza
a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli altri che vi
venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne' loro governi; e,
col tempo, trovandosi in quello luogo assai abitatori fuori del
governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli chiamarono
Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e
mantenersi senza tumulto, perché, quando e' nacque, qualunque
allora abitava in Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si
poteva dolere; quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo
stato fermo e terminato, non avevano cagione né commodità
di fare tumulto. La cagione non vi era, perché non era stato
loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché
chi reggeva li teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e'
potessono pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi
vennono ad abitare Vinegia non sono stati molti, e di tanto numero che
vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati,
perché il numero de' Gentiluomini o egli è equale al
loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagione,
Vinegia potette ordinare quello stato, e mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto, era governata da uno Re e da uno stretto Senato.
Potette mantenersi così lungo tempo, perché, essendo in
Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad
abitare, ed avendo preso le leggi di Licurgo con riputazione (le quali
osservando, levavano via tutte le cagioni de' tumulti) poterono vivere
uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in
Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità
di grado; perché quivi era una equale povertà, ed i
plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della città
si distendevano in pochi cittadini ed erano tenuti discosto dalla
plebe, né gli nobili col trattargli male dettono mai loro
desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i quali, essendo
collocati in quel principato e posti in mezzo di quella
Nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro
dignità, che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che
faceva che la Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo
imperio né temendo, era levata via la gara che la potesse avere
con la Nobilità, e la cagione de' tumulti; e poterono vivere
uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unione:
l'una essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono
essere governati da pochi; l'altra, che, non accettando forestieri
nella loro republica, non avevano occasione né di corrompersi
né di crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli
pochi che la governavano.
Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di
Roma era necessario fare una delle due cose a volere che Roma stesse
quieta come le sopradette republiche: o non adoperare la plebe in
guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a' forestieri, come gli
Spartani. E loro feciono l'una e l'altra; il che dette alla plebe forze
ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma venendo lo stato
romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente,
ch'egli era anche più debile, perché e' gli si troncava
la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo
che, volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava ancora le
cagioni dello ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi
le esaminerà bene: che non si può mai cancellare uno
inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare
uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai
di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu
lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti
dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei
preda di qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra
diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e
pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto
sanza sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di
Sparta, fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non
poteva, come lei, non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo
fare un grande imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo
numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo, arebbe a
esaminare se volesse che ampliasse, come Roma, di dominio e di potenza,
ovvero che la stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso, è
necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e alle
dissensioni universali, il meglio che si può; perché,
sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica
potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel
secondo caso, la puoi ordinare come Sparta e come Vinegia: ma
perché l'ampliare è il veleno di simili republiche,
debbe, in tutti quelli modi che si può, chi le ordina proibire
loro lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una
republica debole, sono al tutto la rovina sua. Come intervenne a Sparta
ed a Vinegia: delle quali la prima, avendosi sottomessa quasi tutta la
Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debile fondamento
suo; perché, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopida,
ribellandosi l'altre cittadi, rovinò al tutto quella republica.
Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore
parte non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare
pruova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei
bene, che a fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il modo,
ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luogo forte, e di
tale potenza che nessuno credesse poterla subito opprimere; e,
dall'altra parte, non fusse sì grande, che la fusse formidabile
a' vicini: e così potrebbe lungamente godersi il suo stato.
Perché, per due cagioni si fa guerra a una republica: l'una, per
diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella non ti occupi. Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via;
perché, se la è difficile a espugnarsi, come io la
presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte
accaderà, o non mai, che uno possa fare disegno di acquistarla.
Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per
paura di sé le faccia guerra: e tanto più sarebbe questo,
se e' fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E
sanza dubbio credo, che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo
modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d'una
città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non
potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a
molte cose che la ragione non t'induce, t'induce la necessità:
talmente che, avendo ordinata una republica atta a mantenersi, non
ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe
a tor via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto.
Così, dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì
benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l'ozio la
farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna
per sé, sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si
potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né mantenere
questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica,
pensare alle parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che,
quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle
potessono, quello ch'elle avessono occupato, conservare. E, per tornare
al primo ragionamento, credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine
romano, e non quello dell'altre republiche; perché trovare un
modo, mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle
inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle,
pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana
grandezza. Perché, oltre all'altre ragioni allegate, dove si
dimostra l'autorità tribunizia essere stata necessaria per la
guardia della libertà, si può facilmente considerare il
beneficio che fa nelle republiche l'autorità dello accusare, la
quale era, intra gli altri, commessa a' Tribuni; come nel seguente
capitolo si discorrerà.
7
Quanto siano in una republica
necessarie le accuse a mantenerla
in libertade.
A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua
libertà, non si può dare autorità più utile
e necessaria, quanto è quella di potere accusare i cittadini al
popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando peccassono in
alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa dua effetti
utilissimi a una republica. Il primo è che i cittadini, per
paura di non essere accusati, non tentano cose contro allo stato; e
tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto, oppressi. L'altro
è che si dà onde sfogare a quegli omori che crescono
nelle cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque cittadino: e
quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono
a' modi straordinari, che fanno rovinare tutta una republica. E
però non è cosa che faccia tanto stabile e ferma una
republica, quanto ordinare quella in modo che l'alterazione di quegli
omori che l'agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalle leggi. Il
che si può per molti esempli dimostrare, e massime per quello
che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice, che, essendo irritata
contro alla Plebe la Nobilità romana, per parerle che la Plebe
avessi troppa autorità, mediante la creazione de' Tribuni che la
difendevano; ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande di
vettovaglie, ed avendo il Senato mandato per grani in Sicilia;
Coriolano, inimico alla fazione popolare, consigliò come egli
era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torle quella
autorità che ella si aveva in pregiudicio della Nobilità
presa; tenendola affamata, e non gli distribuendo il frumento: la quale
sentenzia sendo venuta agli orecchi del Popolo, venne in tanta
indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero
tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a
comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota
quello che di sopra si è detto, quanto sia utile e necessario
che le republiche con le leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che
concepe la universalità contro a uno cittadino: perché
quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre agli straordinari;
e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli.
Perché, se ordinariamente uno cittadino è oppresso,
ancora che li fusse fatto torto, ne séguita o poco o nessuno
disordine in la republica; perché la esecuzione si fa sanza
forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle che rovinano
il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i
termini loro particulari, né trascendono a cosa che rovini la
republica. E quanto a corroborare questa opinione con gli esempli,
voglio che degli antiqui mi basti questo di Coriolano; sopra il quale
ciascuno consideri, quanto male saria risultato alla republica romana,
se tumultuariamente ei fusse stato morto: perché ne nasceva
offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura
cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da' partigiani
nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma
sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autorità si
vennero a tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere
governandola con autorità privata.
Noi avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla
republica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo
ordinariamente contro a un suo cittadino, come accadde ne' tempi che
Francesco Valori era come principe della città; il quale sendo
giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e
animosità transcendere il vivere civile; e non essendo nella
republica via a potergli resistere se non con una setta contraria alla
sua; ne nacque che, non avendo paura quello se non di modi
straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessono;
dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a
reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne alle
armi. E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto opporsegli,
sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a
spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente
suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, in
sostentamento della soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur
in Firenze sopra Piero Soderini, il quale al tutto seguì per non
essere in quella republica alcuno modo di accuse contro alla ambizione
de' potenti cittadini. Perché lo accusare uno potente a otto
giudici in una republica, non basta: bisogna che i giudici siano assai,
perché i pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tanto che, se tali
modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero accusato, vivendo lui
male; e per tale mezzo, sanza far venire l'esercito spagnuolo, arebbono
sfogato l'animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire
operargli contro, per paura di non essere accusati essi: e così
sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di
scandolo.
Tanto che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si
vede che le forze estranee siano chiamate da una parte di uomini che
vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi
ordini di quella, per non essere, dentro a quel cerchio, ordine da
potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori che nascono
negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse agli
assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in Roma
sì bene ordinati, che, in tante dissensioni della Plebe e del
Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino
disegnò valersi di forze esterne; perché, avendo il
rimedio in casa, non erano necessitati andare per quello fuori. E
benché gli esempli soprascritti siano assai sufficienti a
provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio
nella sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato in Chiusi,
città in quelli tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone
violata una sorella di Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la
potenza del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che
allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli
confortò a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come
con loro utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se
Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città,
non arebbe cerco le forze barbare. Ma come queste accuse sono utili in
una republica, così sono inutili e dannose le calunnie, come nel
capitolo seguente discorreremo.
8
Quanto le accuse sono utili
alle republiche, tanto sono perniziose
le calunnie.
Non ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe
libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti i
cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado, cedevano
a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva sopportare che gli
fusse attribuito tanto onore e tanta gloria; parendogli, quanto alla
salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, avere meritato quanto
Cammillo; e, quanto all'altre belliche laude, non essere inferiore a
lui. Di modo che, carico d'invidia, non potendo quietarsi per la gloria
di quello, e veggendo non potere seminare discordia infra i Padri, si
volse alla Plebe, seminando varie opinioni sinistre intra quella. E
intra le altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era
adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato
usurpato da privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva
convertirlo in publica utilità, alleggerendo la Plebe da'
tributi, o da qualche privato debito. Queste parole poterono assai
nella Plebe; talché cominciò a avere concorso, ed a fare
a sua posta dimolti tumulti nella città: la quale cosa
dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa,
creò uno Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e
frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo
fece citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro; il
Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe. Fu
domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro
ch'e' diceva, perché n'era così desideroso il Senato,
d'intenderlo, come la Plebe: a che Manlio non rispondeva
particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non era necessario
dire loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece
mettere in carcere.
È da notare, per questo testo, quanto siano nelle città
libere, ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le calunnie; e
come, per reprimerle, si debba non perdonare a ordine alcuno che vi
faccia a proposito. Né può essere migliore ordine, a
torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perché, quanto
le accuse giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e
dall'una all'altra parte è questa differenza, che le calunnie
non hanno bisogno né di testimone né di alcuno altro
particulare riscontro a provarle, in modo che ciascuno e da ciascuno
può essere calunniato; ma non può già essere
accusato, avendo le accuse bisogno di riscontri veri e di circunstanze
che mostrino la verità dell'accusa. Accusansi gli uomini a'
magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per le
logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e
dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però, un
ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella
accusare ogni cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e
fatto questo, e bene osservato, debbe punire acremente i calunniatori:
i quali non si possono dolere quando siano puniti, avendo i luoghi
aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per le logge
calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte, seguitano
sempre disordini grandi: perché le calunnie irritano, e non
castigano i cittadini; e gli irritati pensano di valersi, odiando
più presto, che temendo, le cose che si dicano contro a loro.
Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed
è stata sempre male ordinata nella nostra città di
Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a Firenze questo
disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa
città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo
date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose importanti di
quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i danari al Comune;
dell'altro, che non aveva vinta una impresa per essere stato corrotto;
e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed il tale
inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio:
donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte,
dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine
d'accusare i cittadini, e punire i calunniatori, non seguivano infiniti
scandoli che sono seguiti; perché quelli cittadini, o condannati
o assoluti che fussono, non arebbono potuto nuocere alla città,
e sarebbeno stati accusati meno assai che non ne erano calunniati, non
si potendo, come ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra
l'altre cose di che si è valuto alcun cittadino per venire alla
grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo contro a
cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano, facevono assai
per quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e
confermandolo nella mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece
amico. E benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio
essere contento solo d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca,
comandato da messer Giovanni Guicciardini, commessario di quello.
Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna che la
espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque il
caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era
stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita
dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, e' si volessi mettere
nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai giustificare, per
non essere modi in quella republica da poterlo fare. Di che ne nacque
assai sdegni intra gli amici di messer Giovanni, che erano la maggior
parte degli uomini grandi ed infra coloro che desideravano fare
novità in Firenze. La quale cosa, e per questa e per altre
simili cagioni, tanto crebbe che ne seguì la rovina di quella
republica.
Era adunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i
Romani mostrarono, in questo caso appunto, come i calunniatori si
debbono punire. Perché si debbe farli diventare accusatori; e
quando l'accusa si riscontri vera, o premiarli o non punirli: ma quando
la non si riscontri vera, punirli, come fu punito Manlio.
9
Come egli è necessario essere
solo
a volere ordinare una repubblica
di nuovo, o al tutto fuor degli
antichi
suoi ordini riformarla.
Ei parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro
nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli
ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla
religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo
tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura
giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere civile,
quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito
alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno nel regno;
giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono con
l'autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di
comandare, offendere quelli che alla loro autorità si
opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse
che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio.
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado
occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene,
o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se non
è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia
quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una republica, e
che abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene
comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe
ingegnarsi di avere l'autorità, solo; né mai uno ingegno
savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria, che, per
ordinare un regno o constituire una republica, usasse. Conviene bene,
che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono,
come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui
che è violento per guastare, non quello che è per
racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e
virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci
ereditaria a un altro: perché, sendo gli uomini più proni
al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente
quello che virtuosamente da lui fusse stato usato. Oltre a di questo,
se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per
durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì
bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il
mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a
ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle
diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo
hanno, non si accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che
nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello
che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo
dimostra lo avere quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si
consigliasse, e secondo la opinione del quale deliberasse. E chi
considerrà bene l'autorità che Romolo si riserbò,
vedrà non se ne essere riserbata alcun'altra che comandare agli
eserciti quando si era deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il
che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de'
Tarquini, dove da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se
non che, in luogo d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il
che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere
stati più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno
assoluto e tirannico.
Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti
esempli; come Moises, Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di
republiche, e' quali poterono, per aversi attribuito
un'autorità, formare leggi a proposito del bene comune: ma li
voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno, non
sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono
essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando
Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le
leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in
parte deviati, la sua città avesse perduto assai di quella
antica virtù, e, per consequente, di forze e d'imperio, fu, ne'
suoi primi principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che
volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno
Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti
ch'egli aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed
intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria se
non diventava solo di autorità; parendogli, per l'ambizione
degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di
pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e
qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in tutto
le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare risuscitare
Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non
fusse stata la potenza de' Macedoni, e la debolezza delle altre
republiche greche. Perché, essendo, dopo tale ordine, assaltato
da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e
non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno,
quantunque giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una
republica è necessario essere solo; e Romolo, per la morte di
Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo.
10
Quanto sono laudabili i fondatori
d'una republica o d'uno regno,
tanto quelli d'una tirannide
sono vituperabili.
Intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono
stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che
hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri quelli
che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello
della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati. E
perché questi sono di più ragioni, sono celebrati,
ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il
numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di
laude, la quale gli arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel
contrario, infami e detestabili gli uomini distruttori delle religioni,
dissipatori de' regni e delle republiche, inimici delle virtù,
delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore
alla umana generazione; come sono gl'impii, i violenti, gl'ignoranti, i
dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno sarà mai sì pazzo
o sì savio, sì tristo o sì buono, che, prepostagli
la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella che
è da laudare, e biasimi quella che è da biasimare:
nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da una
falsa gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente,
nei gradi di coloro che meritano più biasimo che laude; e
potendo fare, con perpetuo loro onore, o una republica o uno regno, si
volgono alla tirannide: né si avveggono per questo partito
quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con
sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio,
biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono.
Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in una
republica, o che per fortuna o per virtù ne diventono principi,
se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono
capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro
patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono
principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi,
Falari e Dionisii: perché vedrebbono questi essere sommamente
vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come
Timoleone e gli altri non ebbono nella patria loro meno autorità
che si avessono Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta
più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per la
gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori:
perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel
nome, non permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui.
Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono,
vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più
biasimevole Cesare, quanto più è da biasimare quello che
ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga ancora con
quante laude ei celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare
quello, per la sua potenza, ei celebravano il nimico suo.
Consideri ancora quello che è diventato principe in una
republica, quanta laude, poiché Roma fu diventata Imperio,
meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e
come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e
vedrà come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non
erano necessari i soldati pretoriani né la moltitudine delle
legioni a difenderli, perché i costumi loro, la benivolenza del
Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scelerati imperadori, non
bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli contro a
quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia vita, aveva
loro generati. E se la istoria di costoro fusse bene considerata,
sarebbe assai ammaestramento a qualunque principe, a mostrargli la via
della gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo.
Perché, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino,
sedici ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente e se di
quelli che furono morti ne fu alcun buono come Galba e Pertinace, fu
morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nei
soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno
scelerato, come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e
virtù; le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà
ancora, per la lezione di questa istoria, come si può ordinare
un regno buono: perché tutti gl'imperadori che succederono
all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli
che per adozione, furono tutti buoni come furono quei cinque da Nerva a
Marco: e come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò nella sua
rovina.
Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e
conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; e
dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse essere
preposto. Perché, in quelli governati da' buoni, vedrà un
principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e
di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua
autorità, i magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini
ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù
esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte,
ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta; vedrà
i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella
opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo; pieno di
riverenza e di gloria il principe, d'amore e sicurtà i popoli.
Se considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri
imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le
sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti col
ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia afflitta, e piena
di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella.
Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto,
desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le
città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli
scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili
crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati onori, e sopra
tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Vedrà
premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi contro al signore, i
liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati inimici,
essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti
oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà da
ogni imitazione de' tempi cattivi, ed accenderassi d'uno immenso
desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la
gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città
corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla
come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore
occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore
desiderare. E se, a volere ordinare bene una città, si avesse di
necessità a diporre il principato, meriterebbe, quello che non
la ordinasse per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi
tenere il principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in
somma, considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione,
come ei sono loro preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e
dopo la morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove
angustie, e, dopo la morte, lasciare di sé una sempiterna
infamia.
11
Della religione de' Romani.
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello
abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua,
nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a
tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa
Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da
lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il
quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle
obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come
cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la
constituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto
timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò
qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani
disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del
popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di per sé,
vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere il
giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la
potenza di Dio, che quella degli uomini: come si vede manifestamente
per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo
la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si
erano adunati insieme, e, sbigottiti della patria, si erano convenuti
abbandonare la Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione,
gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a
giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito
Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco
Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il dì del
giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di
ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al
giuramento; e quello, per timore avendo giurato, gli levò
l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo amore della patria,
le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un
giuramento che furano forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte
l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli avea fatto il
figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al giuramento preso: il che non
nacque da altro, che da quella religione che Numa aveva introdotta in
quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere gli
uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a
disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o
a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado:
perché, dove è religione, facilmente si possono
introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con
difficultà si può introdurre quella. E si vede che a
Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e
militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene
necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con
una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a
consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere
ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua
autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno
popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero
accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente,
i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a
altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa
difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo,
così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo
fine di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano la bontà
e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione. Ben è vero
che l'essere quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i
quali egli aveva a travagliare, grossi, gli dettono facilità
grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro
facilmente qualunque nuova forma. E sanza dubbio, chi volesse ne'
presenti tempi fare una republica più facilità
troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi,
dove la civilità è corrotta: ed uno scultore
trarrà più facilmente una bella statua d'un marmo rozzo,
che d'uno male abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da
Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella
città: perché quella causò buoni ordini; i buoni
ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è
cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di
quello è cagione della rovina d'esse. Perché, dove manca
il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto
dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E
perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regno
manchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce
che gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo,
sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita
di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la
successione, come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
L'umana probitate; e questo vuole
Quel che la dà, perché da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere
uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini
in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli
uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una
opinione nuova, non è però per questo impossibile
persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi.
Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né
rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava
con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché
d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene,
che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria,
da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il
suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che
è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come
nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre,
con uno medesimo ordine.
12
Di quanta importanza sia tenere conto
della religione, e come la Italia,
per esserne mancata mediante
la Chiesa romana, è rovinata.
Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le
cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino.
Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su
che sia fondata la religione dove l'uomo è nato; perché
ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale
ordine suo. La vita della religione Gentile era fondata sopra i
responsi degli oracoli e sopra la setta degli indovini e degli
aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti, dependevano
da queste perché loro facilmente credevono che quello Iddio che
ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo
potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i
sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in
venerarli: perché l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone,
ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di ammirazione e
divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de'
potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne' popoli,
diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine
buono. Debbono, adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i
fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto
questo sarà loro facil cosa mantenere la loro republica
religiosa, e, per conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose
che nascano in favore di quella come che le giudicassono false,
favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto
più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose
naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli
uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano
nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli
augumentano, da qualunque principio e' si nascano; e l'autorità
loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi
miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i
soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e
dicendole: «Vis venire Romam?» parve a alcuno vedere che la
accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché
sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio,
perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto,
tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta
che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale
opinione e credulità da Cammillo a dagli altri principi della
città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se
ne' principi della republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che
dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche
cristiane più unite, più felici assai, che le non sono.
Né si può fare altra maggiore coniettura della
declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono
più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra
hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse
l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere
propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle
città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa,
discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due
potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La
prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa
provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira
dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché,
così come dove è religione si presuppone ogni bene,
così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo,
adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo,
di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno
maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra.
Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia
divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la
non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come
è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la
Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o
una republica o uno principe che la governi, è solamente la
Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio
temporale, non è stata sì potente né di tanta
virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e
farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì
debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose
temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda
contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si
è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante
Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già
quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la
potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i
Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la
Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso
che un altro la occupi, è stata cagione che la non è
potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più
principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta
debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non
solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi
altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne
volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità,
bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la
corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de'
Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla
religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e
vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella
provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque altro accidente
che in qualunque tempo vi potesse surgere.
13
Come i Romani si servivono
della religione per riordinare la
città
e seguire le loro imprese e fermare
i tumulti.
Ei non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani
si servivono della religione per riordinare la città, e per
seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano molti,
nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo
romano i Tribuni di potestà consolare, e, fuora che uno, tutti
plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e venuto certi
prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de'
Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato
la maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a
placare gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo: di
che nacque che la plebe, sbigottita da questa religione, creò i
Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella espugnazione della
città de' Veienti, come i capitani degli eserciti si valevano
della religione per tenergli disposti a una impresa; che, essendo il
lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i soldati
romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma,
trovarono i Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano che
quello anno si espugnerebbe la città de' Veienti, che si
derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i
fastidi della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo
fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che
la era stata assediata. E così la religione, usata bene,
giovò e per la espugnazione di quella città, e per la
restituzione del Tribunato nella Nobilità che, sanza detto
mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo.
Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo tribuno,
volendo lui proporre certa legge, per le cagioni che di sotto, nel suo
luogo, si diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la
Nobilità, fu la religione, della quale si servirono in due modi.
Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla
città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno
pericoli di non perdere la libertà: la quale cosa, ancora che
fusse scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti
della plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che,
avendo un Appio Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in
numero di quattromila uomini, occupato di notte il Campidoglio, in
tanto che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci, perpetui
inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare nella
pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello
insulto era simulato e non vero; uscì fuori del Senato un Publio
Ruberio, cittadino grave e di autorità, con parole, parte
amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della
città, e la intempestiva domanda loro; tanto ch'ei costrinse la
plebe a giurare di non si partire dalla voglia del consolo: tanto che
la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma
essendo in tale espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu
rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per non lasciare riposare la
plebe, né darle spazio a pensare alla legge Terentilla, le
comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo
che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era
obligata a seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come quel
giuramento s'era dato al consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito
Livio mostra come la Plebe, per paura della religione, volle più
tosto ubbidire al consolo, che credere a' tribuni, dicendo in favore
della antica religione queste parole: «Nondum haec, quae nunc
tenet saeculum, negligentia Deum venerat, nec interpretando sibi
quisque jusjurandum et leges aptas faciebat». Per la quale cosa
dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità,
si accordarono col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che
per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per
uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E così
la religione fece al Senato vincere quelle difficultà, che,
sanza essa, mai averebbe vinte.
14
I Romani interpetravano gli auspizi
secondo la necessità, e con la
prudenza
mostravano di osservare la religione,
quando forzati non la osservavano;
e se alcuno temerariamente
la dispregiava, punivano.
Non solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il
fondamento, in buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma
ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della Republica
romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro
ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari, nel principiare le
imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le giornate, ed in ogni
azione loro importante, o civile o militare; né mai sarebbono
iti ad una espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli
Dei promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli altri auspicii,
avevano negli eserciti certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano
pullarii: e qualunque volta eglino ordinavano di fare la giornata con
il nimico, ei volevano che i pullarii facessono i loro auspicii; e,
beccando i polli, combattevono con buono augurio, non beccando, si
astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una
cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la
facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto
attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della
religione.
Il quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei fece
importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in tutto deboli ed
afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai
Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare la giornata, comandò ai pullarii che facessono i
loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe de'
pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la
opinione che era nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per non
tôrre occasione di bene operare a quello esercito, riferì
al consolo come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio,
ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi
soldati, i polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio
nepote del consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose subito,
ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che, quanto a lui ed allo
esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario aveva detto le
bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché lo effetto
corrispondesse al pronostico, comandò ai legati che
constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque
che, andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano tratto uno
dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la quale cosa
udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore
degli Dei; perché lo esercito con la morte di quel bugiardo
s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono presa
contro a di lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni
suoi agli auspicii, prese partito di azzuffarsi, sanza che quello
esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli
ordini della loro religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra punica:
che, volendo azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece fare gli
auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come i polli non
beccavano, disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece gittare in
mare. Donde che azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu
a Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per avere l'uno vinto,
e l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii
prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro fine
tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre
nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma
dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo nel seguente
capitolo.
15
I Sanniti, per estremo rimedio
alle cose loro afflitte,
ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati
per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro
capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani,
Franciosi ed Umbri; «nec suis nec externis viribus jam stare
poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem
defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam,
malebant». Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché
ei sapevano che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione
negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che
la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio,
mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa
forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte
e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non
abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra
quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in
mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono
o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di spavento,
gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori
gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare
qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata,
tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed
essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro
centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi,
impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E
per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo
quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni bianchi, con
creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero
presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel
confortare i suoi soldati, disse: «non enim cristas vulnera
facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum». E
per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il
giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza loro;
perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de'
cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto, furono
superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore
conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei
potessero avere presa per virtù della religione e per il
giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere
altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare
speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica
appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene
usata. E benché questa parte più tosto, per avventura, si
richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno,
dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di
Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non
dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
16
Uno popolo, uso a vivere sotto
uno principe, se per qualche
accidente diventa libero,
con difficultà mantiene la
libertà.
Quanta difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno
principe, perservare dipoi la libertà, se per alcuno accidente
l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquinii,
lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle
antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole;
perché quel popolo è non altrimenti che un animale bruto,
il quale, ancora che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito
sempre in carcere ed in servitù; che dipoi lasciato a sorte in
una campagna libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i
luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca
rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a vivere
sotto i governi d'altri, non sappiendo ragionare né delle difese
o offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo
conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il
più delle volte è più grave che quello che, poco
inanzi, si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste
difficultà, quantunque che la materia non sia corrotta.
Perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzione,
non può, non che piccol tempo, ma punto vivere libero come di
sotto si discorrerà: e però i ragionamenti nostri sono di
quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai, e dove sia
più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra difficultà, la quale
è, che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e
non partigiani amici. Partigiani inimici gli diventono tutti coloro che
dello stato tirannico si prevalevono, pascendosi delle ricchezze del
principe; a' quali sendo tolta la facultà del valersi, non
possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di
ripigliare la tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non
si acquista, come ho detto, partigiani amici; perché il vivere
libero prepone onori e premii, mediante alcune oneste e determinate
cagioni, e fuora di quelle non premia né onora alcuno, e quando
uno ha quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa
avere obligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella
comune utilità che del vivere libero si trae, non è da
alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di
potere godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non
dubitare dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli, non temere di
sé; perché nessuno confesserà mai avere obligo con
uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad avere, lo stato libero e
che di nuovo surge, partigiani inimici, e non partigiani amici. E
volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che le
soprascritte difficultà arrecherebbono seco, non ci è
più potente rimedio, né più valido né
più sicuro né più necessario, che ammazzare i
figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria mostra, non furono
indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare contro alla
patria per altro, se non perché non si potevono valere
straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in modo che la
libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la loro
servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per via di
libertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che
a quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di poca vita. Vero
è che io giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo
stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la
moltitudine: perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente
e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi ha per nimico l'universale
non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa tanto
più debole diventa il suo principato. Talché il maggiore
rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando
qui d'uno principe e quivi d'una republica; nondimeno, per non avere a
tornare più in su questa materia, ne voglio parlare brevemente.
Volendo, pertanto, uno principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse
inimico, parlando di quelli principi che sono diventati della loro
patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima quello che il popolo
desidera, e troverrà sempre che desidera due cose: l'una,
vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di
riavere la sua libertà. Al primo desiderio il principe
può sodisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce
n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in
esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli
ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono
a favorire Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro alla
disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al
popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli
ottimati, i quali non poteva in alcuno modo né contentare
né correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano
sopportare lo avere perduta la libertà, diliberò a un
tratto liberarsi dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E
presa, sopr'a questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi
tutti gli ottimati, con una estrema sodisfazione de' popolari. E
così egli per questa via sodisfece a una delle voglie che hanno
i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare
desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il principe
sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno
desiderare d'essere liberi; e troverrà che una piccola parte di
loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che
sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri.
Perché in tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai
gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini:
e perché questo è piccolo numero, è facil cosa
assicurarsene, o con levargli via, o con fare loro parte di tanti
onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino in buona parte a
contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno
facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si
comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia
questo, e che il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa
tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento.
In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro
per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle
quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi
ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del danaio
facessero a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne potessono
altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello principe,
adunque, o quella republica che non si assicura nel principio dello
stato suo, conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero
i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di non avere fatto
quello che doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei
ricuperò la libertà, potette mantenerla, morti i
figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed
ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quel popolo
corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi validi a
mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
17
Uno popolo corrotto, venuto in
libertà,
si può con difficultà
grandissima
mantenere libero.
Io giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in Roma,
o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno valore;
perché, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli re,
se fossero seguitati così due o tre successioni, e che quella
corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad istendere per le
membra, come le membra fossero state corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era intero,
poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi
presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che viva
sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si
spenga, mai non si può ridurre libera, anzi conviene che l'un
principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo signore non si
posa mai, se già la bontà d'uno, insieme con la
virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto quella
libertà, quanto durerà la vita di quello: come
intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la virtù de'
quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella
città; morti che furono, si ritornò nell'antica
tirannide. Ma non si vede il più forte esemplo che quello di
Roma; la quale, cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e
mantenere quella libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola,
morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non
solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà.
Né tanta diversità di evento in una medesima città
nacque da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo
romano ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo.
Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re,
bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma
alcuno regnasse; e negli altri tempi non bastò l'autorità
e severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo
disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a
similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da
quella corruzione che le parti mariane avevano messa nel popolo; delle
quali sendo capo Cesare, potette accecare quella moltitudine, ch'ella
non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da preporre a qualunque
altro esemplo, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi
popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno
accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano
o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si
vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi ridurre Milano
alla libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però,
fu felicità grande quella di Roma, che questi rediventassero
corrotti presto, acciò ne fussono cacciati, ed innanzi che la
loro corruzione fusse passata nelle viscere di quella città: la
quale incorruzione fu cagione che gl'infiniti tumulti che furono in
Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovorono,
alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che, dove la materia non
è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono: dove la
è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le
non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia osservare,
tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si è mai
intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e'
si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in
declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si
rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo
allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli
ordini buoni; e subito che quel tale è morto, la si ritorna nel
suo pristino abito: come intervenne a Tebe, la quale, per la
virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di
republica e di imperio; ma, morto quello, la si ritornò ne'
primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere
uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una
città lungo tempo male avvezza. E se uno d'una lunghissima vita,
o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la manca
di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con
dimolti pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere.
Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce
da una inequalità che è in quella città: e
volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi
straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo
più particularmente si dirà.
18
In che modo nelle città
corrotte
si potesse mantenere uno stato libero,
essendovi; o, non vi essendo,
ordinarvelo.
Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal
soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si
può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi
fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come
gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché
sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene
ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E
presupporrò una città corrottissima, donde verrò
ad accrescere più tale difficultà; perché non si
truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una
universale corruzione. Perché, così come gli buoni
costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le
leggi, per osservarsi, hanno bisogno de' buoni costumi. Oltre a di
questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel nascimento
suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a
proposito, divenuti che ei sono rei. E se le leggi secondo gli
accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte,
gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano,
perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era
l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con i
magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era
l'autorità del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il
modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono
le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii,
la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di
mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli
ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni,
quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini
buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si
fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non
fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al
creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato,
e gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo
domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché e'
non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni
ed averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne
giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché non
quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano
più potenza domandavano i magistrati; e gl'impotenti,
comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura.
Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi, come
si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani
domata l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua
ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né
pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura.
Questa sicurtà e questa debolezza de' nimici fece che il popolo
romano, nel dare il consolato, non riguardava più la
virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio
sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio
vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei
discesono a darlo a quegli che avevano più potenza;
talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto
esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al
Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in
favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine
buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che
ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed
è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua,
acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il
meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine
pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non per la
comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non
poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo
veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si
mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del vivere
suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini: perché altri
ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo, che
in uno buono; né può essere la forma simile in una
materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si
hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere
più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino per
ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due cose è quasi
impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco,
conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo
inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi tali
è facilissima cosa che in una città non ne surga mai
nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a
altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli uomini,
usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più
non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per
coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a un tratto, quando
ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità,
che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla;
perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo
modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo
straordinario, come è alla violenza ed all'armi, e diventare
innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre
a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere
politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza
principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si
troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie
cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe;
e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia
mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male
acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o
impossibilità, che è nelle città corrotte, a
mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi
si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più
verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché
quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono
essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche
modo frenati. E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe
o crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra,
che fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli
Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello
e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità;
nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano
il suggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo
capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo,
colorire il disegno loro.
19
Dopo uno eccellente principe
si può mantenere uno principe
debole;
ma, dopo uno debole, non si può
con un altro debole mantenere
alcuno regno.
Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e
di Tullo, i primi tre re romani, si vede come Roma sortì una
fortuna grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso,
l'altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a
Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perché
in Roma era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un
ordinatore del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri
re ripigliassero la virtù di Romolo; altrimenti quella
città sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi vicini.
Donde si può notare che uno successore, non di tanta
virtù quanto il primo, può mantenere uno stato per la
virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si può godere
le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo
lui non surga un altro che ripigli la virtù di quel primo,
è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il
contrario, se dua, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si
vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la fama in
fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per giudizio,
eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti e
battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo uno
regno pacifico: quale egli si potette con l'arte della pace, e non con
la guerra, conservare; e si potette godere felicemente la virtù
di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam suo
figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile allo avolo,
né per fortuna simile al padre, rimase con fatica erede della
sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi
più amatore della pace che della guerra, potette godersi le
fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come Davit, battuto i
suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con l'arte
della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì,
presente signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel
regno rovinava; ma e' si vede costui essere per superare la gloria
dell'avolo. Dico pertanto con questi esempli, che, dopo uno eccellente
principe, si può mantenere uno principe debole; ma, dopo un
debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno,
se già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi
antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno
in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso, che la virtù di Romolo
fu tanta, che la potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti
anni con l'arte della pace reggere Roma: ma dopo lui successe Tullo, il
quale per la sua ferocità riprese la riputazione di Romolo: dopo
il quale venne Anco, in modo dalla natura dotato, che poteva usare la
pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere
la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo
effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a volere
mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e
non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i principi che tengono stato; che chi
somiglierà Numa, lo terrà o non terrà, secondo che
i tempi o la fortuna gli girerà sotto; ma chi somiglierà
Romolo, e fia come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà in
ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è
tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per
terzo suo re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua
riputazione non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà,
potuto pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E
così, in mentre che la visse sotto i re la portò questi
pericoli di rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
20
Dua continove successioni di principi
virtuosi fanno grandi effetti;
e come le republiche bene ordinate
hanno di necessità virtuose
successioni,
e però gli acquisti ed
augumenti loro
sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli,
i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in lei uno re o
debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne'
consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per ambizione
violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erono
sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la
virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a
quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto
i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi
virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furano Filippo
di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba fare
una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due
successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno
dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni
republica bene ordinata.
21
Quanto biasimo meriti quel principe
e quella republica che manca
d'armi proprie.
Debbono i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le
difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro
medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere, non
per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua, che non
han saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo, sendo
stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli nel
regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso
fare guerra, non pensò valersi né de' Sanniti, né
de' Toscani, né di altri che fussero consueti stare nell'armi,
ma diliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu
tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo governo gli
poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero
che alcuna altra verità, che, se dove è uomini non
è soldati, nasce per difetto del principe, e non per altro
difetto o di sito o di natura.
Di che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno sa,
come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra assaltò il regno di
Francia, né prese altri soldati che popoli suoi; e, per essere
stato quel regno più che trenta anni sanza fare guerra, non
aveva né soldati né capitano che avesse mai militato:
nondimeno, non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di
capitani e di buoni eserciti, i quali erano stati continovamente sotto
l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente
uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace non
intermette gli ordini della guerra.
Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e
trattala della servitù dello imperio spartano, trovandosi in una
città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati; non
dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto l'armi, e
con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e
vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo
mostrarono che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da
guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi uomini, pure che si
trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che
Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio
esprimere questa opinione, né con altre parole mostrare di
accostarsi a quella, dove dice:
Desidesque movebit
Tullus in arma viros.
22
Quello che sia da notare nel caso
de' tre Orazii romani
e tre Curiazii albani.
Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo
fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero.
Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo uno degli
Orazii romani: e per questo restò Mezio re albano, con il suo
popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma,
scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii morti
maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde
quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte
dispute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi
meriti. Dove sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con
parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che
non mai in una città bene ordinata le colpe con gli meriti si
ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba
o possa dubitare della inosservanza. Perché, gl'importa tanto a
una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che
alcuno di quelli re o di quelli popoli stessero contenti che tre loro
cittadini gli avessero sottomessi: come si vide che volle fare Mezio,
il quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si
confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella
prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide
come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era
avveduto della temerità del partito preso da lui. E
perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai,
parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
23
Che non si debbe mettere a pericolo
tutta la fortuna e non tutte le forze;
e, per questo, spesso il guardare
i passi è dannoso.
Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna
tua e non tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno
è faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la fortuna
tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti aveva
l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e
fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima parte
delle forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come per questo
partito tutta la fatica che avevano durata i loro antecessori
nell'ordinare la republica, per farla vivere lungamente libera e per
fare i suoi cittadini difensori della loro libertà, era quasi
che stata vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La
quale cosa da quelli re non poté essere peggio considerata.
Cadesi ancora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che,
venendo il nimico, disegnano di tenere i luoghi difficili, e guardare i
passi: perché quasi sempre questa diliberazione sarà
dannosa, se già in quello luogo difficile commodamente tu non
potesse tenere tutte le forze tue. In questo caso, tale partito
è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi potendo tenere
tutte le forze, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare
così lo esemplo di coloro, che, essendo assaltati da un inimico
potente, ed essendo il paese loro circundato da' monti e luoghi
alpestri, non hanno mai tentato di combattere il nimico in su' passi ed
in su' monti, ma sono iti a rincontrarlo di là da essi; o,
quando non hanno voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi
monti, in luoghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata
la preallegata: perché, non si potendo condurre alla guardia de'
luoghi alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere lungo
tempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi, non
è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a urtarti: ed
al nimico è facile il venire grosso perché la intenzione
sua è passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta è
impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più
tempo, non sappiendo quando il nimico voglia passare in luoghi, come io
ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti
avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo
confidava, entra il più delle volte ne' popoli e nel residuo
delle genti tua tanto terrore, che, sanza potere esperimentare la
virtù d'esse, rimani perdente; e così vieni a avere
perduta tutta la tua fortuna con parte delle tue forze.
Ciascuno sa con quanta difficultà Annibale passasse l'alpe che
dividono la Lombardia dalla Francia, e con quanta difficultà
passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana: nondimeno i
Romani l'aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e
vollon, più tosto, che il loro esercito fusse consumato da il
nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpe a
essere distrutto dalla malignità del sito.
E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà
pochissimi virtuosi capitani avere tentato di tenere simili passi, e
per le ragioni dette, e perché e' non si possono chiudere tutti,
sendo i monti come campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e
frequentate, ma molte altre le quali, se non sono note a' forestieri,
sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai condotto in
qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone. Di che se ne
può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515. Quando Francesco
re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello
stato di Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano
alla sua impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi
in su' monti. E, come per esperienza poi si vidde, quel loro fondamento
restò vano: perché, lasciato quel Re da parte dua o tre
luoghi guardati da loro, se ne venne per un'altra via incognita; e fu
prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono presentito.
Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli
di Lombardia si accostarono alle genti franciose; sendo mancati di
quella opinione avevano, che i Franciosi devessono essere ritenuti in
su' monti.
24
Le republiche bene ordinate
costituiscono premii e pene
a' loro cittadini, né
compensono mai
l'uno con l'altro.
Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua
virtù vinti i Curiazii: era stato il fallo suo atroce, avendo
morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a' Romani,
che lo condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti
suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a chi
superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine
popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore
considerazione ricerca quali debbono essere gli ordini delle
republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo
assoluto che per averlo voluto condannare. E la ragione è
questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i
demeriti con gli meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii
a una buona opera e le pene a una cattiva ed avendo premiato uno per
avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastiga,
sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi
ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo:
altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un
cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si
aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una
audacia e confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera
non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si
risolverà ogni civilità.
È bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le
malvagie opere, osservare i premii per le buone, come si vide che fece
Roma. E benché una republica sia povera, e possa dare poco,
debbe da quel poco non astenersi, perché sempre ogni piccol
dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora che grande,
sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo.
È notissima la istoria di Orazio Cocle, e quella di Muzio
Scevola: come l'uno sostenne i nimici sopra un ponte, tanto che si
tagliasse; l'altro si arse la mano, che aveva errato, volendo ammazzare
Porsenna, re degli Toscani. A costoro per queste due opere tanto
egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno.
È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per
avere salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano a campo, fu
dato, da quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro, una
piccola misura di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che
allora correva in Roma fu grande; e di qualità che, mosso poi
Manlio o da invidia o dalla sua cattiva natura, a fare nascere
sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu, sanza rispetto
alcuno de' suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio che
esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo.
25
Chi vuole riformare uno stato anticato
in una città libera,
ritenga almeno l'ombra de' modi antichi.
Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città,
a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno
mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi
antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine,
ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai
passati; perché lo universale degli uomini si pascono
così di quel che pare come di quello che è: anzi, molte
volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che
sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro
vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno re creati
duoi consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici
littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai re.
Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il
quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i
Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli re
alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il
quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo
Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi
di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di
disiderare la ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti
coloro che vogliono scancellare un antico vivere in una città, e
ridurla a uno vivere nuovo e libero: perché, alterando le cose
nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni
ritenghino più dello antico sia possibile; e se i magistrati
variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli antichi, che
almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare
colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o
di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la
quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni
cosa, come nel seguente capitolo si dirà.
26
Uno principe nuovo, in una
città
o provincia presa da lui,
debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto
più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si volga o per
via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che
egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo
principe, fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è,
nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove
autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri
ricchi come fece Davit quando ei diventò re: «qui
esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes»; edificare,
oltra di questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare
gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa
niuna intatta in quella provincia e che non vi sia né grado,
né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene
non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia,
padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re,
diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che
tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani
tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici
d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque
uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta
rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella
prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in
questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono
dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi
né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si
mosterrà.
27
Sanno rarissime volte gli uomini
essere al tutto cattivi o al tutto
buoni.
Papa Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello
stato la casa de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di
quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo
Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva
congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione,
nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città
con lo esercito suo, che lo guardasse, ma vi entrò disarmato,
non ostante vi fusse drento Giovampagolo con gente assai, quale per
difesa di sé aveva ragunata. Sì che, portato da quel
furore con il quale governava tutte le cose, con la semplice sua
guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale dipoi ne menò
seco, lasciando un governatore in quella città, che rendesse
ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini prudenti che col papa
erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo;
né potevono estimare donde si venisse che quello non avesse, con
sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico suo, e sé
arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le
loro delizie. Né si poteva credere si fusse astenuto o per
bontà o per conscienza che lo ritenesse; perché in uno
petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i
cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcun pietoso
rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno essere
onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in
sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e' non vi
sanno entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere
incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non
ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno
avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria
eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da
stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa, la
cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da
quella potesse dependere.
28
Per quale cagione i Romani
furono meno ingrati contro agli loro
cittadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in
tutte qualche spezie d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne
troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in qualunque
altra republica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma e
d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano meno cagione di
sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a Roma,
ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu
mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei
non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di
offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario;
perché, sendogli tolta la libertà da Pisistrato nel suo
più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà; come
prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie
ricevute e della passata servitù, diventò prontissima
vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli errori
de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di tanti
eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni altra
violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella
città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi
scrittori della civilità: che i popoli mordono più
fieramente poi ch'egli hanno recuperata la libertà, che poi che
l'hanno conservata. Chi considererà, adunque, quanto è
detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà
Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la
diversità degli accidenti che in queste città nacquero.
Perché si vedrà, chi considererà le cose
sottilmente che, se a Roma fusse stata tolta la libertà come a
Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini,
che si fusse quella. Di che si può fare verissima coniettura per
quello che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino ed a
Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare
Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome
de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per
edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto esule.
Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi
due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine come
Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi
allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare
più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò,
quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.
29
Quale sia più ingrato,
o uno popolo o uno principe.
Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere
quale usi con maggiori esempli questa ingratitudine, o uno popolo o uno
principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo vizio
della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da il sospetto.
Perché, quando o uno popolo o uno principe ha mandato fuori uno
suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel
popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di
premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno errore
che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna. Pure si
truova molti principi che ci peccono. E Cornelio Tacito dice, con
questa sentenzia, la cagione: «Proclivius est iniuriae, quam
beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu
habetur». Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l'offende,
non mosso da avarizia ma da sospetto, allora merita, e il popolo e il
principe, qualche scusa. E di queste ingratitudini, usate per tale
cagione, se ne legge assai: perché quello capitano il quale
virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i
nimici, e riempiendo sé di gloria e gli suoi soldati di
ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e con i nimici, e
con i sudditi propri di quel principe, acquista tanta riputazione, che
quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo ha
mandato. E perché la natura degli uomini è ambiziosa e
sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la
vittoria di quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per
qualche suo modo o termine usato insolentemente. Talché il
principe non può pensare a altro che assicurarsene: e, per fare
questo, ei pensa o di farlo morire o di torgli la riputazione, che si
ha guadagnata nel suo esercito o ne' suoi popoli; e con ogni industria
mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di
quello ma per fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza
degli altri capi che sono stati seco in tale fazione. Poiché
Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore,
Antonio Primo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese
le parti sue, e vennene in Italia contro a Vitellio, quale regnava a
Roma, e virtuosissimamente ruppe dua eserciti Vitelliani, e
occupò Roma, talché Muziano, mandato da Vespasiano,
trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto, e
vinta ogni difficultà. Il premio che Antonio ne riportò,
fu che Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello esercito, e a poco
a poco lo ridusse in Roma sanza alcuna autorità: talché
Antonio ne andò a trovare Vespasiano, quale era ancora in Asia,
dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessuno
grado, quasi disperato morì. E di questi esempli ne sono piene
le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con
quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno
di Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi
e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne
riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a
Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d'armi,
dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna;
dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È tanto, dunque,
naturale questo sospetto ne' principi, che non se ne possono difendere;
ed è impossibile ch'egli usino gratitudine a quelli che con
vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi acquisti.
E da quello che non si difende un principe, non è miracolo,
né cosa degna di maggior memoria, se uno popolo non se ne
difende. Perché, avendo una città che vive libera, duoi
fini, l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi libera; conviene che
nell'una cosa e nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli errori
nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori
per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere
quegli cittadini che la doverrebbe premiare; avere sospetto di quegli
in cui la si doverrebbe confidare. E benché questi modi in una
republica venuta alla corruzione sieno cagione di gran mali, e che
molte volte piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma
di Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli
negava; nondimeno in una republica non corrotta sono cagione di gran
beni, e fanno che la ne vive libera; più mantenendosi, per paura
di punizione, gli uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è che
infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra
discorse, Roma fu la meno ingrata: perché della sua
ingratitudine si può dire che non ci sia altro esemplo che
quello di Scipione; perché Coriolano e Cammillo furono fatti
esuli per ingiuria che l'uno e l'altro avea fatto alla plebe. Ma
all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato contro al popolo
l'animo inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma per tutti i
tempi della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a
Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di
lui, che degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza
del nimico che Scipione aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva
data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla
celerità di essa, dai favori che la gioventù, la
prudenza, e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali
cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano
della sua autorità: la quale cosa dispiaceva agli uomini savi,
come cosa inusitata in Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo,
che Catone Prisco, riputato santo, fu il primo a fargli contro; e a
dire che una città non si poteva chiamare libera, dove era uno
cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché se il popolo
di Roma seguì in questo caso la opinione di Catone, merita
quella scusa che di sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli
principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo
discorso, dico che, usandosi questo vizio della ingratitudine o per
avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per
avarizia la usarono, e per sospetto assai manco che i principi, avendo
meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà.
30
Quali modi debbe usare uno principe
o una republica per fuggire questo
vizio
della ingratitudine; e quali quel
capitano
o quel cittadino per non essere
oppresso
da quella.
Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con
sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle
espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani, come
fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli che
sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto
è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui,
non par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui
quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi; e diventono
ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la loro perdita
che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e' si
rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io non ho che precetto
dare loro, altro che quello che per loro medesimi si sanno. Ma dico
bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della
ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la vittoria
lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi
da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché quello, spogliato
d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o,
quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte
contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello
acquisto sia suo proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i
soldati ed i sudditi; e facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li
suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di
quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi
cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli
userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini
non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni; e
sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito
non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti
e che abbiano in sé l'onorevole non sanno; talché, stando
ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi.
Quanto a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non
si può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che
vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitata a mandare
uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che
la tenga i medesimi modi che tenne la Republica romana a essere meno
ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi del suo governo.
Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli
ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti
uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva
cagione di dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno
l'altro. E in tanto si mantenevano interi e respettivi di non dare
ombra di alcuna ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi,
l'offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne
riportava che più tosto la diponeva. E così, non potendo
simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo
che, una republica che non voglia avere cagione d'essere ingrata, si
debba governare come Roma, e uno cittadino che voglia fuggire quelli
suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da' cittadini romani.
31
Che i capitani romani per errore
commesso non furano mai
istraordinariamente puniti; né
furano
mai ancora puniti
quando per la ignoranza loro
o tristi partiti presi da loro
ne fusse seguiti danni alla republica.
I Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco
ingrati che l'altre republiche, ma ancora furano più pii e
più rispettivi nella punizione de' loro capitani degli eserciti
che alcuna altra. Perché se il loro errore fusse stato per
malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non
che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano
che fusse di tanta importanza, a quelli che governavano gli eserciti
loro, lo avere l'animo libero ed espedito, e sanza altri estrinseci
rispetti nel pigliare i partiti, che non volevono aggiugnere, a una
cosa per sé stessa difficile e pericolosa, nuove
difficultà e pericoli; pensando che, aggiugnendoveli, nessuno
potessi essere che operassi mai virtuosamente. Verbigrazia, e'
mandavano uno esercito in Grecia contro a Filippo di Macedonia, o in
Italia contro a Annibale, o contro a quelli popoli che vinsono prima.
Era, questo capitano che era preposto a tale espedizione, angustiato da
tutte quelle cure che si arrecavano dietro quelle faccende, le quali
sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto
più esempli de' Romani ch'eglino avessono crucifissi o
altrimenti morti quelli che avessono perdute le giornate, egli era
inpossibile che quello capitano intra tanti sospetti potessi deliberare
strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali fusse
assai pena la ignominia dello avere perduto, non li vollono con altra
maggiore pena sbigottire.
Uno esemplo ci è, quanto allo errore commesso non per ignoranza.
Erano Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno preposto a una parte
dello esercito; de' quali Sergio era all'incontro donde potevono venire
i Toscani, e Virginio dall'altra parte. Occorse che, sendo assaltato
Sergio da' Falisci e da altri popoli, sopportò di essere rotto e
fugato prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall'altra parte
Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più tosto vedere il
disonore della patria sua e la rovina di quello esercito, che
soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere notato, e da fare
non buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro non
fussono stati gastigati. Vero è che, dove un'altra republica gli
averebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in denari. Il
che nacque non perché i peccati loro non meritassono maggiore
punizione, ma perché gli Romani vollono in questo caso, per le
ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quando
agli errori per ignoranza, non ci è il più bello esemplo
che quello di Varrone: per la temerità del quale sendo rotti i
Romani a Canne da Annibale, dove quella Republica portò pericolo
della sua libertà; nondimeno, perché vi fu ignoranza e
non malizia, non solamente non lo gastigarono ma lo onorarono; e gli
andò incontro, nella tornata sua in Roma, tutto l'ordine
senatorio: e non lo potendo ringraziare della zuffa, lo ringraziarono
ch'egli era tornato in Roma, e non si era disperato delle cose romane.
Quando Papirio Cursore voleva fare morire Fabio, per avere, contro al
suo comandamento, combattuto co' Sanniti; intra le altre ragioni che
dal padre di Fabio erano assegnate contro alla ostinazione del
dittatore, era che il popolo romano in alcuna perdita de' suoi capitani
non aveva fatto mai quello che Papirio nelle vittorie voleva fare.
32
Una republica o uno principe
non debbe differire
a beneficare gli uomini
nelle sue necessitadi.
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo,
sopravvenendo il pericolo, quando Porsenna venne a assaltare Roma per
rimettere i Tarquinii; dove il Senato, dubitando della plebe, che la
non volesse più tosto accettare i re che sostenere la guerra,
per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d'ogni
gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio publico se
ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel popolo
si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che,
confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a
guadagnarsi il popolo; però che mai gli riuscirà quello
che riuscì ai Romani. Perché l'universale
giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi, e
dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga loro quello
che hai forzatamente loro dato, non arà teco obligo alcuno. E la
cagione perché a' Romani tornò bene questo partito, fu
perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo; e aveva
veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio suo,
come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette
persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla
venuta dei nimici, quanto dalla disposizione del Senato in beneficarli.
Oltre a questo, la memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in
molti modi vilipesi e ingiuriati. E perché simili cagioni
accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volte che simili
rimedi giovino. Però, debbe qualunque tiene stato, così
republica come principe, considerare innanzi, quali tempi gli possono
venire addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si
può avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quello modo che
giudica, sopravvegnente qualunque caso, essere necessitato vivere. E
quello che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime un
principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene, con
i beneficii riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna: perché, non
solamente non se ne assicura, ma accelera la sua rovina.
33
Quando uno inconveniente è
cresciuto
o in uno stato o contro a uno stato,
è più salutifero partito
temporeggiarlo
che urtarlo.
Crescendo la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i
vicini, i quali prima non avevano pensato quanto quella nuova republica
potesse arrecare loro di danno, cominciarono, ma tardi, a conoscere lo
errore loro; e volendo rimediare a quello che prima non aveano
rimediato, congiurarono bene quaranta popoli contro a Roma: donde i
Romani intra gli altri rimedii soliti farsi da loro negli urgenti
pericoli, si volsono a creare il Dittatore, cioè dare
potestà a uno uomo che sanza alcuna consulta potesse diliberare,
e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue diliberazioni. Il
quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione che vincessero i
soprastanti pericoli, così fu sempre utilissimo in tutti quegli
accidenti che, nello augumento dello imperio, in qualunque tempo
surgessono contro alla Republica.
Sopra il quale accidente è da discorrere prima, come, quando uno
inconveniente, che surga o in una republica o contro a una republica,
causato da cagione intrinseca o estrinseca, è diventato tanto
grande che e' cominci a fare paura a ciascuno, è molto
più sicuro partito temporeggiarsi con quello, che tentare di
estinguerlo. Perché, quasi sempre, coloro che tentano di
ammorzarlo fanno le sue forze maggiori, e fanno accelerare quel male
che da quello si sospettava. E di questi simili accidenti ne nasce
nella republica più spesso per cagione intrinseca che
estrinseca: dove molte volte, o e' si lascia pigliare ad uno cittadino
più forze che non è ragionevole, o e' si comincia a
corrompere una legge, la quale è il nervo e la vita del vivere
libero; e lasciasi trascorrere questo errore in tanto, che gli è
più dannoso partito il volere rimediare che lasciarlo seguire. E
tanto è più difficile il conoscere questi inconvenienti
quando e' nascono, quanto e' pare più naturale agli uomini
favorire sempre i principii delle cose: e tali favori possano,
più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che abbiano
in sé qualche virtù e siano operate da' giovani.
Perché se in una republica si vede surgere uno giovane nobile,
quale abbia in sé virtù istraordinaria, tutti gli occhi
de' cittadini si cominciono a voltare verso lui e concorrere,sanza
alcuno rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello è punto
d'ambizione, accozzati i favori che gli dà la natura e questo
accidente, viene subito in luogo che, quando i cittadini si avveggono
dello errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi e volendo quegli
tanti ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la
potenza sua.
Di questo se ne potrebbe addurre assai esempli, ma io ne voglio
solamente dare uno della città nostra. Cosimo de' Medici, dal
quale la casa de' Medici in la nostra città ebbe il principio
della sua grandezza, venne in tanta riputazione col favore che gli
dette la sua prudenza e la ignoranza degli altri cittadini, che ei
cominciò a fare paura allo stato, in modo che gli altri
cittadini giudicavano l'offenderlo pericoloso ed il lasciarlo stare
così, pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi Niccolò
da Uzzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo, ed
avendo fatto il primo errore di non conoscere i pericoli che dalla
riputazione di Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non permesse
mai che si facesse il secondo, cioè che si tentasse di volerlo
spegnere; giudicando tale tentazione essere al tutto la rovina dello
stato loro; come si vide in fatto, che fu, dopo la sua morte:
perché, non osservando quegli cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contro a Cosimo, e lo cacciorono da
Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco di poi lo richiamò, e lo fece principe della
republica: a il quale grado sanza quella manifesta opposizione non
sarebbe mai potuto salire.
Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare, che, favorita da Pompeio
e dagli altri quella sua virtù, si convertì poco dipoi
quel favore in paura: di che fa testimone Cicerone, dicendo che Pompeio
aveva tardi cominciato a temere Cesare. La quale paura fece che
pensarono ai rimedi; e gli rimedi che fecero, accelerarono la rovina
della loro Republica.
Dico, adunque, che poi che gli è difficile conoscere questi mali
quando ei surgano, causata questa difficultà da uno inganno che
ti fanno le cose in principio, è più savio partito il
temporeggiarle poi che le si conoscono, che l'oppugnarle:
perché, temporeggiandole, o per loro medesime si spengono, o
almeno il male si differisce in più lungo tempo. E in tutte le
cose debbono aprire gli occhi i principi che disegnano cancellarle o
alle forze ed impeto loro opporsi; di non dare loro, in cambio di
detrimento, augumento; e, credendo sospingere una cosa, tirarsela
dietro, ovvero suffocare una pianta a annaffiarla. Ma si debbano
considerare bene le forze del malore, e quando ti vedi sufficiente a
sanare quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare,
né in alcun modo tentarlo. Perché interverrebbe, come di
sopra si discorre, come intervenne a' vicini di Roma: ai quali,
poiché Roma era cresciuta in tanta potenza, era più
salutifero con gli modi della pace cercare di placarla e ritenerla
addietro, che coi modi della guerra farle pensare ai nuovi ordini e
alle nuove difese. Perché quella loro congiura non fece altro
che farli più uniti, più gagliardi, e pensare a modi
nuovi, mediante i quali in più breve tempo ampliarono la potenza
loro. Intra i quali fu la creazione del Dittatore; per lo quale nuovo
ordine, non solamente superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione
di ovviare a infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella
republica sarebbe incorsa.
34
L'autorità dittatoria fece
bene,
e non danno, alla Republica romana:
e come le autorità che i
cittadini
si tolgono, non quelle che sono loro
dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniziose.
E' sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono
in quella città modo di creare il Dittatore, come cosa che fosse
cagione, col tempo, della tirannide di Roma; allegando, come il primo
tiranno che fosse in quella città la comandò sotto questo
titolo dittatorio; dicendo che, se non vi fusse stato questo Cesare non
arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare la sua tirannide.
La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione,
esaminata, e fu fuori d'ogni ragione creduta. Perché, e' non fu
il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu
l'autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio: e
se in Roma fusse mancato il nome dittatorio, ne arebbono preso un
altro; perché e' sono le forze che facilmente si acquistano i
nomi, non i nomi le forze. E si vede che 'l Dittatore, mentre fu dato
secondo gli ordini publici, e non per autorità propria, fece
sempre bene alla città. Perché e' nuocono alle republiche
i magistrati che si fanno e l'autoritadi che si dànno per vie
istraordinarie, non quelle che vengono per vie ordinarie: come si vede
che seguì in Roma, in tanto processo di tempo, che mai alcuno
Dittatore fece se non bene alla Republica.
Di che ce ne sono ragioni evidentissime. Prima, perché a volere
che un cittadino possa offendere, e pigliarsi autorità
istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte qualità, le quali
in una republica non corrotta non può mai avere: perché
gli bisogna essere ricchissimo, ed avere assai aderenti e partigiani, i
quali non può avere dove le leggi si osservano; e quando pure ve
gli avessi, simili uomini sono in modo formidabili, che i suffragi
liberi non concorrano in quelli. Oltra di questo, il Dittatore era
fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a quella
cagione mediante la quale era creato; e la sua autorità si
estendeva in potere diliberare per sé stesso circa i rimedi di
quello urgente pericolo, e fare ogni cosa sanza consulta, e punire
ciascuno sanza appellagione: ma non poteva fare cosa che fussi in
diminuzione dello stato; come sarebbe stato tôrre autorità
al Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi della città, e
farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo della sua
dittatura, e le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo
romano non corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi,
e nocessi alla città: e per esperienza si vede che sempre mai
giovò.
E veramente, infra gli altri ordini romani, questo è uno che
merita essere considerato e numerato infra quegli che furono cagione
della grandezza di tanto imperio; perché sanza uno simile ordine
le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti
istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle republiche hanno
il moto tardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato
per sé stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno
l'uno dell'altro, e perché nel raccozzare insieme questi voleri
va tempo) sono i rimedi loro pericolosissimi, quando egli hanno a
rimediare a una cosa che non aspetti tempo. E però le republiche
debbano intra loro ordini avere uno simile modo: e la Republica
viniziana, la quale intra le moderne republiche è eccellente, ha
riservato autorità a pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti,
sanza maggiore consulta, tutti d'accordo possino deliberare.
Perché, quando in una republica manca uno simile modo, è
necessario, o, servando gli ordini, rovinare, o, per non ruinare,
rompergli. Ed in una republica non vorrebbe mai accadere cosa che con
modi straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il
modo straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa
male; perché si mette una usanza di rompere gli ordini per bene,
che poi, sotto quel colore, si rompono per male. Talché mai fia
perfetta una republica, se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e
ad ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a governarlo. E
però, conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli
urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili
autoritadi, sempre ne' gravi accidenti rovineranno. È da notare
in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu
saviamente provisto. Perché, sendo la creazione del Dittatore
con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della città, a
divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e presupponendo che di
questo avessi a nascere isdegno fra' cittadini; vollono che
l'autorità dello eleggerlo fosse nei Consoli: pensando che,
quando l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di questa regia
potestà, ei lo avessono a fare volentieri e facendolo loro, che
dolesse loro meno. Perché le ferite ed ogni altro male che
l'uomo si fa da sé spontaneamente e per elezione, dolgano di
gran lunga meno, che quelle che ti sono fatte da altrui. Ancora che poi
negli ultimi tempi i Romani usassono, in cambio del Dittatore, di dare
tale autorità al Console, con queste parole: «Videat
Consul, ne Respublica quid detrimenti capiat». E per tornare alla
materia nostra, conchiudo, come i vicini di Roma, cercando opprimergli,
gli fecerono ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a potere,
con più forza, più consiglio e più
autorità, offendere loro.
35
La cagione perché la creazione
in Roma
del Decemvirato fu nociva alla
libertà
di quella republica, non ostante
che fusse creato per suffragi publici
e liberi.
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella
autorità che si occupa con violenza, non quella ch'è data
con gli suffragi, nuoce alle republiche, la elezione dei dieci
cittadini creati dal Popolo romano per fare le leggi in Roma: i quali
ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno rispetto occuparono
la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del dare
l'autorità e il tempo per che la si dà. E quando e' si
dia autorità libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo
uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti
o buoni o rei, secondo che siano rei o buoni coloro a chi la
sarà data. E se si considerrà l'autorità che
ebbero i Dieci, e quella che avevano i Dittatori, si vedrà,
sanza comparazione, quella de' Dieci maggiore. Perché, creato il
Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Senato, con la loro
autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e
s'egli avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non
poteva annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il
Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro,
venivano a essere come sua guardia, a farlo non uscire della via
diritta. Ma nella creazione de' Dieci occorse tutto il contrario:
perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni; dettero loro
autorità di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo
romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli, sanza Tribuni,
sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad avere chi gli
osservasse ei poterono, il secondo anno, mossi dall'ambizione di Appio,
diventare insolenti. E per questo si debbe notare, che, quando e' si
è detto che una autorità, data da' suffragi liberi, non
offese mai alcuna republica, si presuppone che un popolo non si conduca
mai a darla, se non con le debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma
quando, o per essere ingannato, o per qualche altra cagione che lo
accecasse, e' si conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il
Popolo romano la dette a' Dieci gl'interverrà sempre come a
quello. Questo si prova facilmente, considerando quali cagioni
mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e
considerando ancora, come hanno fatto quelle republiche che sono state
tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo, come
davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai
loro Duci: perché si vedrà, all'uno ed all'altro modo di
costoro essere poste guardie, che facevano che ei non potevano usare
male quella autorità. Né giova, in questo caso, che la
materia non sia corrotta; perché una autorità assoluta in
brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e partigiani.
Né gli nuoce, o essere povero, o non avere parenti;
perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli corre
dietro: come particularmente nella creazione de' detti Dieci
discorrereno.
36
Non debbano i cittadini,
che hanno avuti i maggiori onori,
sdegnarsi de' minori.
Avevano i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una
gloriosissima giornata contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale fu
morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo anno davanti era
stato consolo. Dove si debbe considerare quanto gli ordini di quella
città erano atti a farla grande; e quanto le altre republiche,
che si discostono da' modi suoi, s'ingannino. Perché, ancora che
i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non stimavano
così disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano
comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano
stati principi. Il quale costume è contrario alla opinione,
ordini e modi de' cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è
ancora questo errore, che uno cittadino, avendo avuto un grado grande,
si vergogni di accettarne uno minore; e la città gli consenta
che se ne possa discostare. La quale cosa, quando fusse onorevole per
il privato, è al tutto inutile per il publico. Perché
più speranza debbe avere una republica, e più confidare
in uno cittadino che da uno grado grande scenda a governare uno minore
che in quello che da uno minore salga a governare uno maggiore.
Perché a costui non può ragionevolmente credere, se non
gli vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di tanta
virtù che la novità di colui possa essere, con il
consiglio ed autorità loro, moderata. E quando in Roma fosse
stata la consuetudine quale è a Vinegia e nell'altre republiche
e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo non volesse mai
più andare negli eserciti se non Consolo, ne sarebbero nate
infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori che
arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono
potuta usare meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali
ei temessono errare; e così sarebbero venuti a essere più
sciolti: il che sarebbe tornato tutto in detrimento publico.
37
Quali scandoli partorì in Roma
la legge agraria: e come fare una
legge
in una republica, che riguardi
assai indietro, e sia contro a una
consuetudine antica della
città,
è scandolosissimo.
Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini
sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall'una e
dall'altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti.
Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere
per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto
potente ne' petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli
abbandona. La cagione è, perché la natura ha creati gli
uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il
desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala
contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso.
Da questo nasce il variare della fortuna loro: perché,
disiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non
perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla
quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di
quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché alla Plebe romana
non bastò assicurarsi de' nobili per la creazione de' Tribuni,
al quale desiderio fu costretta per necessità; che lei, subito,
ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere
con la Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa
stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che
partorì la contenzione della legge agraria, che infine fu causa
della distruzione della Republica. E perché le republiche bene
ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini, poveri,
convenne che fusse nella città di Roma difetto in questa legge:
la quale o non fusse fatta nel principio in modo che la non si avesse
ogni dì a ritrattare, o che si differisse tanto in farla, che
fosse scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo ordinata bene da
prima, era stata poi dall'uso corrotta, talché in qualunque modo
si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che quella
città non andasse sottosopra.
Aveva questa legge due capi principali. Per l'uno si disponeva che non
si potesse possedere per alcuno cittadino più che tanti iugeri
di terra; per l'altro, che i campi di che si privavano i nimici, si
dividessono intra il popolo romano. Veniva pertanto a fare di dua sorte
offese ai nobili: perché quegli che possedevano più beni
non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de' nobili), ne
avevano a essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de' nimici,
si toglieva a quegli la via dello arricchire. Sicché, venendo a
essere queste offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro,
contrastandola, difendere il publico, qualunque volta, come è
detto, si ricordava, andava sottosopra tutta quella città: e i
nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano o con trarre fuora
uno esercito o che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse un
altro Tribuno, o talvolta cederne parte, ovvero mandare una colonia in
quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne del contado di
Anzio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si
mandò in quel luogo una colonia, tratta di Roma, alla quale si
consegnasse detto contado. Dove Tito Livio usa un termine notabile,
dicendo che con difficultà si trovò in Roma chi desse il
nome per ire in detta colonia: tanto era quella plebe più pronta
a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio.
Andò questo omore di questa legge, così, travagliandosi
un tempo, tanto che gli Romani cominciarono a condurre le loro armi
nelle estreme parti di Italia, o fuori di Italia; dopo al quale tempo
parve che la cessassi. Il che nacque perché i campi che
possedevano i nimici di Roma essendo discosti agli occhi della plebe,
ed in luogo dove non gli era facile il cultivargli, veniva a essere
meno desiderosa di quegli: e ancora i Romani erano meno punitori de'
loro nimici in simil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del
suo contado, vi distribuivano colonie. Tanto che, per tali cagioni,
questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi; da' quali
essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana;
perché la trovò raddoppiata la potenza de' suoi
avversari, e si accese, per questo, tanto odio intra la Plebe ed il
Senato, che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d'ogni modo e
costume civile. Talché, non potendo i publici magistrati
rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in
quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti
pensò di farsi uno capo che la difendesse. Prevenne in questo
scandolo e disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto
che la lo fece quattro volte consule; ed in tanto continovò con
pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sé stesso
far consulo tre altre volte. Contro alla quale peste non avendo la
Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto,
quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e, dopo molto
sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità.
Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio;
perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di
quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale
fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi libera quella
città.
Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché
noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e
la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in
favore della libertà, e per questo paia disforme a tale
conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io
non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta
l'ambizione de' grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non
è in una città sbattuta, tosto riduce quella città
alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria
penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per
avventura, molto più tosto in servitù quando la plebe, e
con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato
l'ambizione de' nobili. Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini
stimano più la roba che gli onori. Perché la
Nobilità romana sempre negli onori cede sanza scandoli
straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba fu tanta la
ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare
l'appetito suo, a quegli straordinari che di sopra si discorrono. Del
quale disordine furono motori i Gracchi, de' quali si debbe laudare
più la intenzione che la prudenzia. Perché, a volere
levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare
una legge che riguardi assai indietro, è partito male
considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro
che accelerare quel male, a che quel disordine ti conduce: ma,
temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per sé
medesimo col tempo avanti che venga al fine suo, si spegne.
38
Le republiche deboli sono male
risolute
e non si sanno diliberare; e se le
pigliano
mai alcun partito, nasce più da
necessità
che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli
Volsci ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressare
Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo esercito, assaltarono i
Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese, furono costretti i
Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e pregare che fossero
difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con
le loro armi, perché essi non gli potevano difendere. Dove si
conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre
in ogni fortuna volle essere quello che fusse principe delle
diliberazioni che avessero a pigliare i suoi; né si
vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo modo
di vivere o ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la
necessità gliene comandava.
Questo dico, perché altre volte il medesimo Senato aveva vietato
ai detti popoli l'armarsi e difendersi; talché a uno Senato meno
prudente di questo sarebbe paruto cadere del grado suo a concedere loro
tale difensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si
debbano giudicare, e sempre prese il meno reo partito per migliore:
perché male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi, male
gli sapeva che si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per
molte altre che s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono
armati, per necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso;
prese la parte onorevole, e volle che quello che gli aveano a fare, lo
facessero con licenza sua, acciocché, avendo disubbidito per
necessità, non si avvezzassero a disubbidire per elezione. E
benché questo paia partito che da ciascuna republica dovesse
essere preso, nientedimeno le republiche deboli e male consigliate non
gli sanno pigliare, né si sanno onorare di simili
necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendo tornarsene a Roma per la
Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il passo per
sé e per lo esercito suo. Consultossi in Firenze come si avesse
a governare questa cosa, né fu mai consigliato per alcuno di
concedergliene. In che non si seguì il modo romano:
perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo
disarmati che non gli potevan vietare il passare, era molto più
onore loro, che paresse che passasse con volontà di quegli, che
a forza; perché, dove vi fu al tutto il loro vituperio, sarebbe
stato in parte minore quando l'avessero governata altrimenti. Ma la
più cattiva parte che abbiano le republiche deboli, è
essere inresolute; in modo che tutti i partiti che le pigliono, gli
pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno forzate,
e non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo due altri esempli, occorsi ne' tempi nostri,
nello stato della nostra città.
Nel 1500, ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milano,
desideroso di rendervi Pisa, per avere cinquantamila ducati che gli
erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale restituzione,
mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da monsignore di
Beumonte; benché francese, nondimanco uomo in cui i Fiorentini
assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano intra
Cascina e Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno
giorno per ordinarsi alla espugnazione, vennono oratori Pisani a
Beumonte, e gli offerirono di dare la città allo esercito
francese con questi patti: che, sotto la fede del re, promettesse non
la mettere in mano de' Fiorentini, prima che dopo quattro mesi. Il
quale partito fu da' Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si
seguì nello andarvi a campo e partirsene con vergogna. Né
fu rifiutato il partito per altra cagione che per diffidare della fede
del re; come quegli che per debolezza di consiglio si erano per forza
messi nelle mani sue, e, dall'altra parte, non se ne fidavano, ne
vedevano quanto era meglio che il re potesse rendere loro Pisa sendovi
dentro, e, non la rendendo, scoprire l'animo suo, che, non la avendo,
poterla loro promettere, e loro essere forzati comperare quelle
promesse. Talché, molto più utilmente arebbono fatto a
acconsentire che Beumonte l'avessi, sotto qualunque promessa, presa:
come se ne vide la esperienza dipoi nel 1502, che, essendosi ribellato
Arezzo, venne ai soccorsi de' Fiorentini mandato da il re di Francia
monsignor Imbalt con gente francese; il quale, giunto propinquo ad
Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare accordo con gli
Aretini, i quali sotto certa fede volevon dare la terra, a similitudine
de' Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo
monsignor Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero
poco, cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé,
sanza partecipazione de' Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo
modo, e, sotto quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo,
faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano matti, e non
s'intendevano delle cose del mondo: che, se volevano Arezzo, lo
facessero intendere a il re, il quale lo poteva dare loro molto meglio,
avendo le sua gente in quella città, che fuori. Non si restava
in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; né si
restò mai infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse
stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo.
E così, per tornare a proposito, le republiche inresolute non
pigliono mai partiti buoni, se non per forza, perché la
debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno
dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che le
sospinga, stanno sempre mai sospese.
39
In diversi popoli si veggano spesso
i medesimi accidenti.
E' si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le
antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli
medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In
modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose
passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi quegli rimedi
che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati,
pensarne de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma
perché queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi
legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandoli in ogni tempo.
Avendo la città di Firenze, dopo il 94, perso parte dello
imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu necessitata fare guerra a
coloro che le occupavano. E perché chi le occupava era potente,
ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, sanza alcun frutto;
dallo spendere assai, ne risultava assai gravezze; dalle gravezze,
infinite querele del popolo: e perché questa guerra era
amministrata da uno magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i
Dieci della guerra, l'universale cominciò a recarselo in
dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra e delle spese
d'essa; e cominciò a persuadersi che, tolto via detto
magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che, avendosi a rifare,
non se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si mandarono le
azioni sue alla Signoria. La quale diliberazione fu tanto perniziosa,
che, non solamente non levò la guerra, come lo universale si
persuadeva, ma, tolto via quegli uomini che con prudenza
l'amministravano, ne seguì tanto disordine, che, oltre a Pisa,
si perdé Arezzo e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi
il popolo dello errore suo, e come la cagione del male era la febbre e
non il medico, rifece il magistrato de' Dieci. Questo medesimo omore si
levò in Roma contro al nome de' Consoli: perché veggendo
quello popolo nascere l'una guerra dall'altra, e non poter mai
riposarsi; dove e' dovevano pensare che la nascessi dall'ambizione de'
vicini che gli volevano opprimere, pensavano nascessi dall'ambizione
de' nobili, che, non potendo dentro in Roma gastigare la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma
sotto i Consoli, per oppressarla dove la non aveva aiuto alcuno. E
pensarono, per questo, che fusse necessario o levar via i Consoli, o
regolare in modo la loro potestà, che e' non avessono
autorità sopra il popolo né fuori né in casa. Il
primo che tentò questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il
quale proponeva che si dovessero creare cinque uomini che dovessero
considerare la potenza de' Consoli, e limitarla. Il che alterò
assai la Nobilità, parendogli che la maiestà dello
imperio fusse al tutto declinata, talché alla Nobilità
non restasse più alcun grado in quella Republica. Fu nondimeno
tanta l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome consolare si spense; e
furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto
creare Tribuni con potestà consolare, che Consoli: tanto avevano
più in odio il nome che l'autorità loro. E così
seguitarono lungo tempo, infine che, conosciuto l'errore loro, come i
Fiorentini ritornarono a' Dieci, così loro ricreorno i Consoli.
40
La creazione del Decemvirato in Roma,
e quello che in essa è da
notare:
dove si considera, intra molte altre
cose,
come si può o salvare, per
simile
accidente, o oppressare una republica.
Volendo discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero in
Roma per la creazione del Decemvirato, non mi pare soperchio narrare,
prima, tutto quello che seguì per simile creazione, e dopo
disputare quelle parti che sono, in esse azioni, notabili: le quali
sono molte e di grande considerazione, così per coloro che
vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si
vedrà, molti errori fatti dal Senato e dalla plebe in disfavore
della libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del
Decemvirato, in disfavore di quella tirannide che egli si aveva
presupposto stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni
seguite intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi in
Roma, per le quali si stabilisse più la libertà di quello
stato, mandarono, d'accordo, Spurio Pestumio, con duoi altri Cittadini,
a Atene, per gli esempli di quelle leggi che Solone dette a quella
città, acciocché sopra quelle potessono fondare le leggi
romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione degli uomini
che avessero ad esaminare e fermare dette leggi; e crearono dieci
cittadini per uno anno, intra i quali fu creato Appio Claudio, uomo
sagace ed inquieto. E perché e' potessono, sanza alcun rispetto,
creare tali leggi, si levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed
in particulare i Tribuni ed i Consoli, e levossi lo appello al Popolo;
in modo che tale magistrato veniva a essere al tutto principe di Roma.
Appresso ad Appio si ridusse tutta l'autorità degli altri suoi
compagni, per i favori che gli faceva la Plebe; perché egli
s'era fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che pareva
maraviglia ch'egli avesse preso sì presto una nuova natura e uno
nuovo ingegno, essendo stato tenuto, innanzi a questo tempo, uno
crudele perseguitatore della plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che
dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch'era infra loro
proposto. E benché gli avessono l'autorità assoluta,
nondimeno, avendosi a punire uno cittadino romano per omicida, lo
citorno nel cospetto del popolo, e da quello lo fecero giudicare.
Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le
confermassero, le messono in publico, acciocché ciascuno le
potesse leggere e disputarle; acciocché si conoscesse se vi era
alcun difetto, per poterle innanzi alla confermazione loro emendare.
Fece, in su questo, Appio nascere un romore per Roma, che, se a queste
dieci tavole se ne aggiugnesse due altre, si darebbe a quelle la loro
perfezione; talché questa opinione dette occasione al popolo di
rifare i Dieci per un altro anno: a che il popolo s'accordò
volentieri, sì perché i Consoli non si rifacessono,
sì perché e' pareva loro potere stare sanza Tribuni,
sendo loro giudici delle cause, come disopra si disse. Preso, dunque,
partito di rifarli, tutta la Nobilità si mosse a cercare questi
onori; ed intra i primi era Appio; ed usava tanta umanità verso
la plebe nel domandarlo, che la cominciò a essere sospetta a'
suoi compagni: «credebant enim haud gratuitam in tanta superbia
comitatem fore». E dubitando di opporsegli apertamente,
deliberarono farlo con arte, e benché e' fusse minore di tempo
di tutti dettono a lui autorità di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo ch'egli osservassi i termini degli altri di non
proporre sé medesimo, sendo cosa inusitata e ignominiosa in
Roma. «Ille vero impedimentum pro occasione arripuit» e
nominò sé intra i primi, con maraviglia e dispiacere di
tutti i nobili; nominò dipoi nove altri, a suo proposito. La
quale nuova creazione, fatta per uno altro anno, cominciò a
mostrare al Popolo ed alla Nobilità lo errore suo. Perché
subito «Appius finem fecit ferendae alienae personae»; e
cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi
dì riempié de' suoi costumi i suoi compagni. E per
isbigottire il popolo ed il Senato in cambio di dodici littori, ne
feciono cento venti.
Stette la paura equale qualche giorno; ma cominciarono poi a
intrattenere il Senato, e batter la plebe: e se alcuno battuto
dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato nell'appellagione
che nella prima sentenzia. In modo che la Plebe, conosciuto lo errore
suo, cominciò piena di afflizione a riguardare in viso i nobili,
«et inde libertatis captare auram, unde servitutem timendo, in
eum statum rempublicam adduxerunt». E alla Nobilità era
grata questa loro afflizione, «ut ipsi, taedio praesentium,
Consules desiderarent». Vennono i dì che terminavano
l'anno: le due tavole delle leggi erano fatte, ma non publicate. Da
questo i Dieci presono occasione di continovare nel magistrato; e
cominciarono a tenere con violenza lo stato, e farsi satelliti della
gioventù nobile, alla quale davono i beni di quegli che loro
condennavano. «Quibus donis juventus corrumpebatur et malebat
licentiam suam, quam omnium libertatem». Nacque in questo tempo,
che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a' Romani; in su la quale paura
cominciarono i Dieci a vedere la debolezza dello stato loro,
perché sanza il Senato non potevono ordinare la guerra, e,
ragunando il Senato, pareva loro perdere lo stato. Pure, necessitati,
presono questo ultimo partito; e ragunati i senatori insieme, molti de'
senatori parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare
Valerio ed Orazio: e l'autorità loro si sarebbe al tutto spenta,
se non che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare
l'autorità sua pensando che, se i Dieci deponevano il magistrato
voluntari, che potesse essere che i Tribuni della plebe non si
rifacessero. Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con dua
eserciti guidati da parte di detti Dieci; Appio rimase a governare la
città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che,
volendola tôrre per forza, il padre Virginio, per liberarla,
l'ammazzò: donde seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti: i
quali riduttisi insieme con il rimanente della plebe romana, se ne
andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto che i Dieci deposono il
magistrato, e che furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma
nella forma della sua antica libertà.
Notasi adunque, per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo
inconveniente di creare questa tirannide per quelle medesime cagioni
che nascano la maggior parte delle tirannidi nelle città: e
questo è da troppo desiderio del popolo, d'essere libero, e da
troppo desiderio de' nobili, di comandare. E quando e' non convengano a
fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna
delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide
surge. Convennono il popolo ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e
crearli con tanta autorità, per il desiderio che ciascuna delle
parti aveva, l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il
tribunizio. Creati che furono, parendo alla plebe che Appio fusse
diventato popolare e battessi la Nobilità, si volse il popolo a
favorirlo. E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare
riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in odio, e
che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e'
diventerà tiranno di quella città. Perché egli
attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la
Nobilità; e non si volterà mai alla oppressione del
popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel quale tempo,
conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. Questo
modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide in le
republiche. E se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua tirannide
arebbe presa più vita, e non sarebbe mancata sì presto:
ma e' fece tutto il contrario, né si potette governare
più imprudentemente; che, per tenere la tirannide, e' si fece
inimico di coloro che gliele avevano data e che gliele potevano
mantenere, ed inimico di quelli che non erano concorsi a dargliene e
che non gliene arebbono potuta mantenere; e perdessi coloro che gli
erano amici, e cercò di avere amici quegli che non gli potevano
essere amici. Perché, ancora che i nobili desiderino
tiranneggiare, quella parte della Nobilità che si truova fuori
della tirannide, è sempre inimica al tiranno; né quello
se la può guadagnare mai tutta, per l'ambizione grande e grande
avarizia che è in lei non potendo il tiranno avere né
tante ricchezze né tanti onori che a tutta satisfaccia. E
così Appio, lasciando il popolo ed accostandosi a' nobili, fece
uno errore evidentissimo, e per le ragioni dette di sopra, e
perché, a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia
più potente chi sforza che chi è sforzato.
Donde nasce che quegli tiranni che hanno amico l'universale ed inimici
i grandi, sono più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta
da maggiori forze, che quella di coloro che hanno per inimico il popolo
e amica la Nobilità. Perché con quello favore bastono a
conservarsi le forze intrinseche: come bastarono a Nabide, tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò: il
quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con quello
si difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello
altro grado per avere pochi amici dentro, non bastono le forze
intrinseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno a essere di tre
sorte: l'una satelliti forestieri, che ti guardino la persona, l'altra
armare il contado, che faccia quello ufficio che arebbe a fare la
plebe, la terza accostarsi con vicini potenti che ti difendino. Chi
tiene questi modi e gli osserva bene, ancora ch'egli avesse per inimico
il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma Appio non poteva fare
questo, di guadagnarsi il contado, sendo una medesima cosa il contado e
Roma: e quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne'
primi principii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione
del Decemvirato errori grandissimi: perché, avvenga che di sopra
si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che quegli
magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono
nocivi alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli
ordina i magistrati, fargli in modo che gli abbino avere qualche
rispetto a diventare scelerati. E dove e' si debbe preporre loro
guardia per mantenergli buoni, i Romani la levarono, faccendolo solo
magistrato in Roma, ed annullando tutti gli altri, per la eccessiva
voglia (come di sopra dicemo) che il Senato aveva di spegnere i
Tribuni, e la plebe di spegnere i Consoli; la quale gli accecò
in modo, che concorsono in tale disordine. Perché gli uomini,
come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di
rapina; ne' quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda,
a che la natura gl'incita, che non sentono uno altro maggiore uccello
che sia loro sopra per ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo
discorso, come nel principio preposi, lo errore del popolo romano,
volendo salvare la libertà, e gli errori di Appio, volendo
occupare la tirannide.
41
Saltare dalla umiltà alla
superbia,
dalla piatà alla
crudeltà,
sanza i debiti mezzi, è cosa
imprudente
e inutile.
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la
tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una
qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello ingannare
la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora
bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a
rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso
contro alla opinione della Nobilità; fu bene usato creare
compagni a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli
ebbe fatto questo, secondo che disopra dico, mutare, in uno subito,
natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla plebe; di umano, superbo;
di facile, difficile; e farlo tanto presto, che, sanza scusa niuna,
ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché
chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar
cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le
occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori
vecchi, la te ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a
diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e
sanza amici, rovini.
42
Quanto gli uomini facilmente
si possono corrompere.
Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli
uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura,
quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto quella
gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a
essere amica della tirannide per uno poco di utilità che gliene
conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci,
sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla
malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi,
e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto
più pronti i latori di leggi delle republiche o de' regni a
frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere
impune errare.
43
Quegli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati.
Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia
è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a
quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione
d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre
essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono.
Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni
della inutilità de' soldati mercenari; i quali non hanno altra
cagione che gli tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro.
La qual cagione non è né può essere bastante a
fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che voglino morire per te.
Perché in quegli eserciti che non è un'affezione verso di
quello per chi e' combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani,
non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere
a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non
può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi
tuoi; è necessario, a volere tenere uno stato, a volere
mantenere una republica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si
vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatto
grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella
medesima virtù; ma perché in loro non era quella medesima
disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima il
magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a
militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente,
le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica
consuetudine loro.
44
Una moltitudine sanza capo è
inutile:
e come e' non si debbe minacciare
prima,
e poi chiedere l'autorità.
Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel
Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con
quale autorità gli avevano abbandonati i loro capitani, e
ridottosi nel Monte. E tanto era stimata l'autorità del Senato,
che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno si ardiva a rispondere.
E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere, ma
mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra appunto la
inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu
conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni
militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato.
Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro
direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non
deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe,
fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni
della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni magistrato,
e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere vivi.
Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima
come impia, dicendo: «Crudelitatem damnatis, in crudelitatem
ruitis»; e consigliarongli che dovessono lasciare il fare
menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a ripigliare
l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro
modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca
prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il
tale male con essa; perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma
vuolsi cercare di ottenere quel suo desiderio in ogni modo.
Perché e' basta a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti
voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano,
soddisfare allo appetito tuo.
45
È cosa di malo esemplo non
osservare
una legge fatta, e massime
dallo autore d'essa; e rinfrescare
ogni dì nuove ingiurie in una
città,
è, a chi la governa,
dannosissimo.
Seguito lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio
citò Appio innanzi al Popolo, a difendere la sua causa. Quello
comparse accompagnato da molti nobili: Virginio comandò che
fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare
al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella
appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel
Popolo che egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a
violare quella appellagione che gli aveva con tanto desiderio ordinata.
Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al dì del giudizio
ammazzò se stesso. E benché la scelerata vita di Appio
meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le
leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perché io
non credo che sia cosa di più cattivo esemplo in una republica,
che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la
non è osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94,
stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo
Savonerola, gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e
la virtù dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni
per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse
appellare al Popolo dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e
la Signoria dessono; la quale legge persuase più tempo, e con
difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la
confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per
conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non
furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più
riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché, se
quella appellagione era utile, e' doveva farla osservare, se la non era
utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo
accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che fece poi che
fu rotta questa legge, non mai o dannò chi l'aveva rotta, o lo
scusò; come quello che dannare non la voleva come cosa che gli
tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto
l'animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli
assai carico.
Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo
de' tuoi cittadini nuovi umori per nuove ingiurie che a questo e quello
si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché
tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e
condennati; in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la
Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non
fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande
inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
proveduto; il quale fece uno editto, che per uno anno non fusse lecito
a alcuno citare o accusare alcuno cittadino romano: il che
rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia
dannoso a una republica o a un principe, tenere con le continove pene
ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza dubbio non
si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli
uomini che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in ogni modo
si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci, e meno
respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non
offendere mai alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare
gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l'animo.
46
Li uomini salgono da una ambizione
a un'altra; e prima si cerca non
essere
offeso, dipoi si offende altrui.
Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel
suo pristino grado ed in tanto maggiore quanto si erano fatte di molte
leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva ragionevole che
Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per esperienza si vide in
contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi tumulti e
nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la
ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire
appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la
Nobilità insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e stando la
plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili a
ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon fare pochi rimedi, perché,
loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte, ancora
che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce,
nonpertanto aveva a caro che, avendosi a trapassare il modo, lo
trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di
difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva
ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è
che, mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare
temere altrui; e quella ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono
sopra un altro; come se fusse necessario offendere o essere offeso.
Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le republiche si
risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da un'ambizione a
un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare,
e verissima: «quod omnia mala exempla bonis initiis orta
sunt». Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini
che ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non
potere essere offesi, non solamente dai privati, ma etiam da'
magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e quelle
acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o
con difenderli da' potenti: e perché questo pare virtuoso,
inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in
tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità
che i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno
rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia
prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che
volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi,
di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un inconveniente che
abbi di già fatto assai augumento in una città: tanto che
la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di spegnerlo con
pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una
servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne
libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i cittadini
e magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non dura
dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde
una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare
che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e
ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla
libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
47
Gli uomini, come che s'ingannino
ne' generali, ne' particulari
non s'ingannono.
Essendosi il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il
nome consolare, e volendo che potessono essere fatti Consoli uomini
plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la
Nobilità, per non maculare l'autorità consolare né
con l'una né con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu
contenta che si creassi quattro Tribuni con potestà consolare, i
quali potessono essere così plebei come nobili. Fu contenta a
questo la plebe, parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo
sommo grado la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che,
venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti
plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio
dice queste parole: «Quorum comitiorum eventus docuit, alios
animos in contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita
certamina in incorrupto iudicio esse». Ed esaminando donde possa
procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali
s'ingannono assai, nelle particulari non tanto. Pareva generalmente
alla Plebe romana di meritare il Consolato, per avere più parte
in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per
essere quella che con le braccia sue manteneva Roma libera, e la faceva
potente. E parendogli, come è detto, questo suo desiderio
ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo. Ma
come la ebbe a fare giudicio degli uomini suoi particularmente, conobbe
la debolezza di quegli, e giudicò che nessuno di loro meritasse
quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché,
vergognatasi di loro, ricorse a quegli che lo meritavano. Della quale
diliberazione maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste
parole: «Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi
nunc in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?».
In confirmazione di questo, se ne può addurre un altro notabile
esemplo, seguito in Capova da poi che Annibale ebbe rotti i Romani a
Canne. Per la quale rotta sendo tutta sollevata Italia, Capova ancora
stava per tumultuare, per l'odio che era intra 'l popolo ed il Senato:
e trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e
conoscendo il pericolo che portava quella città di tumultuare,
disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la
Nobilità; e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e
narrò loro l'odio che il popolo aveva contro di loro, ed i
pericoli che portavano di essere ammazzati da quello, e data la
città a Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi
soggiunse che, se volevano lasciare governare questa cosa a lui,
farebbe in modo che si unirebbono insieme; ma gli voleva serrare dentro
al palagio, e, col fare potestà al popolo di potergli gastigare,
salvargli. Cederono a questa sua opinione i Senatori; e quello
chiamò il popolo a concione, avendo rinchiuso in palagio il
Senato; e disse com'egli era venuto il tempo che potevano domare la
superbia della Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da
quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma
perché credeva che loro non volessono che la loro città
rimanessi sanza governo, era necessario, volendo ammazzare i Senatori
vecchi, crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i nomi de'
Senatori in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli
farebbe, i tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono
trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello
levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed
arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio, si
racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato
uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi
a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E
così seguitando di mano in mano, tutti quegli che furono
nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo che
Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e, a fare
gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene
che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la quale
i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare che
quella umanità che voi cercavi altrove, troverrete in loro. Ed
accordatisi a questo, ne seguì la unione di questo ordine; e
quello inganno in che egli erano si scoperse, come e' furno costretti
venire a' particulari. Ingannonsi, oltra di questo, i popoli
generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse; le quali,
dipoi si conoscono particularmente, mancano di tale inganno.
Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da
Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma più tosto
una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di male in
peggio; molti popolari, veggendo la rovina della città, e non ne
intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche potente
che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo proposito, e
tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge
e per le piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che,
se mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e
gli gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al
supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che vedeva
le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed
i pericoli che soprastavano, e la difficultà del rimediarvi. E
veduto come i tempi, e non gli uomini, causavano il disordine,
diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta; perché la
cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che
nel considerarle generalmente si aveva presupposto. Dimodoché,
quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e
vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono che
nascessi, non per più vera cognizione delle cose, ma
perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo
questo a molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio
che diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed uno in palazzo.
Considerando, dunque, tutto quello si è discorso, si vede come
e' si può fare tosto aprire gli occhi a' popoli, trovando modo,
veggendo che uno generale gl'inganna, ch'egli abbino a discendere a'
particulari; come fece Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma. Credo
ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debba
fuggire il giudicio populare nelle cose particulari, circa le
distribuzioni de' gradi e delle dignità: perché solo in
questo il popolo non s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia
sì rado, che s'inganneranno più volte i pochi uomini che
avessono a fare simili distribuzioni. Né mi pare superfluo
mostrare, nel seguente capitolo, l'ordine che teneva il Senato per
ingannare il popolo nelle distribuzioni sue.
48
Chi vuole che uno magistrato
non sia dato a uno vile o a uno
cattivo,
lo facci domandare o a uno troppo vile
e troppo cattivo o a uno troppo nobile
e troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare
non fussero fatti d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli
faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente,
per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed ignobilissimo,
che mescolati con i plebei che, di migliore qualità, per
l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo
ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo
faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto torna a proposito del
precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna de'
generali, de' particulari non s'inganna.
49
Se quelle cittadi che hanno avuto
il principio libero, come Roma,
hanno difficultà a trovare
legge
che le mantenghino: quelle che lo
hanno
immediate servo, ne hanno quasi
una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte
quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene il
processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono ordinate
di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e
Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile opera;
nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono nuove
necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come
intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli
provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse
in libertà. Perché, diventati arbitri de' costumi di
Roma, furono cagione potissima che i Romani differissono più a
corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tale
magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non
molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco dittatore, il quale
per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i
Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco
del Senato: la quale cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata.
E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potessi
difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di
Roma in questa parte non buoni: perché e' non è bene che
una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per promulgare
una legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno
rimedio, offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che
si debbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare che,
se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che
per sé medesimo si è retto, come Roma, hanno
difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere;
non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il
principio loro immediate servo, abbino, non che difficultà, ma
impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere
civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla
città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo
sottoposto allo Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il
governo d'altrui, stette un tempo abietta, e sanza pensare a sé
medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a
fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano
cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita
maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere
mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata
republica. E queste difficultà, che sono state in lei, sono
state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii
simili a lei. E, benché molte volte, per suffragi pubblici e
liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di potere
riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune
utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha
fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per
venire a qualche esemplo particulare, dico come, intra le altre cose
che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una republica è
esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del
sangue contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma,
perché e' si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se
pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione
mediante l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del
Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio non
refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre
città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa
autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal
principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà,
mantennono questa autorità in uno forestiero, il quale
chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da'
cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la
mutazione degli stati questo ordine, crearono otto cittadini che
facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo,
diventò pessimo, per le ragioni che altre volte sono dette; che
i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de' più potenti. Da
che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci
cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni cittadino. E
perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne
avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di
più, hanno voluto che il Consiglio de' Pregai, che è il
Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo
accusatore, non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a
freno. Non è adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata
da sé medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni
dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in
favore del viver libero; se nell'altre città, che hanno
più disordinato principio, vi surgano tante difficultà,
che le non si possino riordinarsi mai.
50
Non debba uno consiglio
o uno magistrato potere fermare le
azioni
delle città.
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i
quali, sendo disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella
Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il
Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon fare.
Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano
d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non
avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con
l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si
ha a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non
era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla
Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: l'altra, che mai si
debbe ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna
diliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere
la republica. Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno
consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno
magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli una
necessità perché ci l'abbia a fare in ogni modo, o
ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno
altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come
si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si
poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana
il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle
volte che l'universalità, per isdegno o per qualche falsa
persuasione, non creava i successori a' magistrati della città,
ed a quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era
disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre suddite e
la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né
si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel
Consiglio o non si soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta
questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli
cittadini prudenti non vi si fusse proveduto: i quali, presa occasione
conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o
fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando
fussono fatti gli scambi e i successori loro. E così si tolse la
commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della
republica, fermare le azioni publiche.
51
Una republica o uno principe
debbe mostrare di fare per
liberalità
quello a che la necessità lo
constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro
azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in
ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei
diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini che
militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma veggendo il
Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per
questo non potendo né assediare terre né condurre gli
eserciti discosto; e giudicando essere necessario potere fare l'uno e
l'altro, deliberò che si dessono detti stipendi: ma lo feciono
in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli
constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo presente, che Roma
andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio
grande, quale mai speravono di avere, e quale mai per loro medesimi
arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare
questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non
alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare
questo soldo: nientedimeno non potevano fare tanto che la plebe non lo
avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il modo che
distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori
furono quelli ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono
pagati.
52
A reprimere la insolenzia d'uno che
surga
in una republica potente,
non vi è più sicuro e
meno scandoloso
modo, che preoccuparli quelle vie
per le quali viene a quella potenza.
Vedesi, per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la
Nobilità con la plebe, per le dimostrazioni lette in beneficio
suo, sì del soldo ordinato, sì ancora del modo del porre
i tributi. Nel quale ordine se la Nobilità si fosse mantenuta,
si sarebbe levato via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi
tolto ai Tribuni quel credito che gli avevano con la plebe, e, per
consequente, quella autorità. E veramente, non si può in
una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior modo,
meno scandoloso e più facile, opporsi all'ambizione di alcuno
cittadino, che preoccupandogli quelle vie, per le quali si vede che
esso cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale modo se fusse
stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perché,
se quegli cittadini che gareggiavano seco avessero preso lo stile suo,
di favorire il popolo, gli venivano, sanza tumulto e sanza violenza, a
trarre di mano quelle armi di che egli si valeva più. Piero
Soderini si aveva fatto riputazione nella città di Firenze con
questo solo, di favorire l'universale; il che nello universale gli dava
riputazione, come amatore della libertà della città. E
veramente, a quegli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua,
era molto più facile, ed era cosa molto più onesta, meno
pericolosa, e meno dannosa per la republica, preoccupargli quelle vie
con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli,
acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante della
republica. Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi
con le quali si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente),
arebbono potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni
publiche opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto alcuno. E se alcuno
replicasse che, se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non
gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava riputazione nel
popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare quelle vie
per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere. Di che Piero
merita scusa, sì perché gli era difficile il farlo,
sì perché le non erano oneste a lui; imperocché le
vie con le quali era offeso, erano il favorire i Medici; con li quali
favori essi lo battevano, ed alla fine lo rovinarono. Non poteva,
pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà, alla quale egli era
stato preposto guardia: dipoi, non potendo questi favori farsi segreti
e a un tratto, erano per Piero pericolosissimi; perché comunche
ei si fusse scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed
odioso al popolo: donde ai nimici suoi nasceva molto più
commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti ed
i pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi sia più del
pericoloso che dell'utile; nonostante che ne fussi stata data sentenzia
conforme alla diliberazione loro. Perché, faccendo altrimenti,
in questo caso interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il
quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene accrebbe.
Perché, sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato,
ed avendo quello grande esercito insieme adunato, in buona parte, de'
soldati che avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per torgli
questi soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad
Ottaviano, e mandarlo con Irzio e Pansa consoli contro a Marc'Antonio:
allegando, che, subito che i soldati che seguivano Marc'Antonio,
sentissero il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a costui; e
così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe facile lo
opprimerlo. La quale cosa riuscì tutta al contrario;
perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato
Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al tutto
la distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a
conietturare: né si doveva credere quel che si persuase Tullio,
ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria aveva spenti i
nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; né si doveva
credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa che
fosse conforme al nome libero.
53
Il popolo molte volte disidera
la rovina sua, ingannato da una falsa
spezie di beni: e come le grandi
speranze
e gagliarde promesse facilmente
lo muovono.
Espugnata che fu la città de' Veienti, entrò nel popolo
romano un'opinione, che fosse cosa utile per la città di Roma,
che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veio; argomentando
che, per essere quella città ricca di contado, piena di edificii
e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de' cittadini
romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna azione
civile. La quale cosa parve al Senato ed a' più savi Romani
tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere
più tosto per patire la morte che consentire a una tale
diliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si accese
tanto la plebe contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al
sangue, se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed
estimati cittadini, la riverenza de' quali frenò la plebe, che
la non procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si
hanno a notare due cose. La prima che il popolo molte volte, ingannato
da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli
è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da
alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche infiniti
pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in
alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo
addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina, di
necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo che
fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua morte! e
Muoia la sua vita! Da questa incredulità nasce che qualche volta
in le republiche i buoni partiti non si pigliono: come di sopra si
disse de' Viniziani, quando, assaltati da tanti inimici, non poterono
prendere partito di guadagnarsene alcuno con la restituzione delle cose
tolte ad altri (per le quali era mosso loro la guerra, e fatta la
congiura de' principi loro contro), avanti che la rovina venisse.
Pertanto, considerando quello che è facile o quello che è
difficile persuadere a uno popolo, si può fare questa
distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fronte
guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito animoso, o vile. E
quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si vede guadagno,
ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare animoso,
ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre
sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia
sempre difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o
viltà o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto salute e
guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempli,
romani e forestieri, moderni ed antichi. Perché da questo nacque
la malvagia opinione che surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale non
poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella Republica
procedere lentamente in quella guerra, e sostenere sanza azzuffarsi
l'impeto d'Annibale; perché quel popolo giudicava questo partito
vile, e non vi vedeva dentro quella utilità vi era; né
Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli
accecati in queste opinioni gagliarde, che, benché il Popolo
romano avesse fatto quello errore di dare autorità al Maestro
de' cavagli di Fabio, di potersi azzuffare, ancora che Fabio non
volesse; e che per tale autorità il campo romano fusse per
essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi rimediava, non gli
bastò questa isperienza, che fece di poi consule Varrone, non
per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i
luoghi publici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque volta
gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e la rotta
di Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo
proposito, ancora uno altro esemplo romano. Era stato Annibale in
Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di occisione de' Romani tutta
questa provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo
vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado nella milizia), ed
offersesi, che, se gli davano autorità di potere fare esercito
d'uomini volontari in qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe
loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la
domanda di costui temeraria; nondimeno, ei, pensando, che s'ella se gli
negasse e nel popolo si fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne
nascesse qualche tumulto, invidia e mal grado contro all'ordine
senatorio, gliene concessono: volendo più tosto mettere a
pericolo tutti coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi
sdegni nel popolo; sapendo quanto simile partito fusse per essere
accetto, e quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque,
costui con una moltitudine inordinata ed incomposta a trovare Annibale;
e non gli fu prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo
seguitarono, rotto e morto.
In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo
gravissimo e prudentissimo, persuadere a quel Popolo che non fusse bene
andare a assaltare Sicilia; talché, presa quella diliberazione
contro alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la rovina di
Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che desiderava la provincia
di Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine, a che non si
accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò
di proporla nel Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto
simili diliberazioni piaccino a' popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare esempli della nostra città;
come fu quando messere Ercole Bentivogli governatore delle genti
fiorentine, insieme con Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto
Bartolommeo d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a Pisa la quale
impresa fu diliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messere
Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasimassero: nondimeno non
vi ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la quale
era fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico, adunque,
come e' non è la più facile via a fare rovinare una
republica dove il popolo abbia autorità, che metterla in imprese
gagliarde; perché, dove il popolo sia di alcuno momento, sempre
fiano accettate, né vi arà, chi sarà d'altra
opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della
città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina
particulare de' cittadini che sono preposti a simili imprese:
perché, avendosi il popolo presupposto la vittoria, come ei
viene la perdita, non ne accusa né la fortuna né la
impotenzia di chi ha governato, ma la malvagità e ignoranza sua;
e quello, il più delle volte, o ammazza o imprigiona o confina:
come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a molti Ateniesi.
Né giova loro alcuna vittoria che per lo addietro avessero
avuta, perché tutto la presente perdita cancella: come
intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non avendo espugnata
Pisa, come il popolo si aveva presupposto ed egli promesso, venne in
tanta disgrazia popolare, che, non ostante infinite sue buone opere
passate, visse più per umanità di coloro che ne avevano
autorità, che per alcuna altra cagione che nel popolo lo
difendesse.
54
Quanta autorità abbi uno uomo
grave
a frenare una moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato,
è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine
concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di
autorità, che se le faccia incontro; né sanza cagione
dice Virgilio:
Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
Conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si
trova in una città, dove nascesse tumulto debba rappresentarsi
in su quello con maggiore grazia e più onorevolmente che
può, mettendosi intorno le insegne di quello grado che tiene,
per farsi più riverendo. Era, pochi anni sono, Firenze divisa in
due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si chiamavano; e
venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era
Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed
andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla;
messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi
cardinale, si trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il
romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso,
e di sopra il roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e
con la presenzia e con le parole gli fermò; la quale cosa fu per
tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo,
adunque, come e' non è il più fermo né il
più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che
la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia riverendo. Vedesi,
adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta ostinazione la
plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo
giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e
come, nascendone assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato
con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore.
55
Quanto facilmente si conduchino
le cose in quella città dove la
moltitudine
non è corrotta: e che, dove
è equalità,
non si può fare principato;
e dove la non è, non si
può
fare republica.
Ancora che di sopra si sia discorso assai quello è da temere o
sperare delle cittadi corrotte, nondimeno non mi pare fuori di
proposito considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della preda de'
Veienti: la quale preda sendo venuta nelle mani della Plebe romana,
né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece il Senato uno
editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la decima parte
di quello ch'egli aveva predato. E benché tale diliberazione non
avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo, e per altra via
sodisfatto a Apolline, in sodisfazione della plebe; nondimeno si vede
per tale diliberazione quanto quel Senato confidava nella bontà
di quella, e come ei giudicava che nessuno fusse per non rappresentare
appunto tutto quello che per tale editto gli era comandato. E
dall'altra parte si vede come la plebe non pensò di fraudare in
alcuna parte lo editto con il dare meno che non doveva, ma di liberarsi
di quello con il mostrarne aperte indegnazioni. Questo esemplo, con
molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà
e quanta religione fusse in quel popolo, e quanto bene fusse da sperare
di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si
può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle
provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la
Italia sopra tutte l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale
corrozione ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto
dalla bontà de' popoli, la quale in buona parte è
mancata, quanto dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non
solamente per la virtù sua, ma per l'ordine di quegli regni, che
ancora non sono guasti. Vedesi bene, nella provincia della Magna,
questa bontà e questa religione ancora in quelli popoli essere
grande; la quale fa che molte republiche vi vivono libere, ed in modo
osservono le loro leggi che nessuno di fuori né di dentro
ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in loro, regni buona parte di
quella antica bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a
questo, detto di sopra, del Senato e della plebe romana. Usono quelle
republiche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna
quantità di danari per conto publico, che quegli magistrati o
consigli che ne hanno autorità, ponghino a tutti gli abitanti
della città uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di
valsente. E fatta tale diliberazione, secondo l'ordine della terra si
rappresenta ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso
prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa
a ciò diputata quello che secondo la conscienza sua gli pare
dovere pagare: del quale pagamento non è testimone alcuno, se
non quello che paga. Donde si può conietturare quanta
bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi
stimare che ciascuno paghi la vera somma: perché, quando la non
si pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità
che loro disegnassero secondo le antiche che fossino usitate
riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude: e conoscendo si
arebbe preso altro modo che questo. La quale bontà è
tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è
più rada: anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia.
Il che nasce da dua cose: l'una, non avere avute conversazioni grandi
con i vicini; perché né quelli sono iti a casa loro,
né essi sono iti a casa altrui, perché sono stati
contenti di quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane,
che dà il paese; d'onde è stata tolta via la cagione
d'ogni conversazione, ed il principio d'ogni corruttela; perché
non hanno possuto pigliare i costumi, né franciosi, né
spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte insieme sono la
corruttela del mondo. L'altra cagione è, che quelle republiche
dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non
sopportono che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso
di gentiluomo: anzi mantengono intra loro una pari equalità, ed
a quelli signori e gentiluomini, che sono in quella provincia, sono
inimicissimi; e se per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come
principii di corruttele e cagione d'ogni scandolo, gli ammazzono. E per
chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che
gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle
loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di
coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono
perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia, ma più
perniziosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a
castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due spezie
di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e
la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai
surta alcuna republica né alcuno vivere politico; perché
tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d'ogni
civilità. Ed a volere in provincie fatte in simil modo
introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a volerle
riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi
uno regno. La ragione è questa che, dove è tanto la
materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna
ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è una mano
regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla
eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione
con lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno state
lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le altre
città di quella provincia essere in modo serve, che, con lo
animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o che le vorrebbono
mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in
quella provincia alcuno signore di castella, e nessuno o pochissimi
gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che facilmente da uno
uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse cognizione,
vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo infortunio suo è
stato tanto grande, che infino a questi tempi non si è abattuta
a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che
vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la
può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che,
dov'è assai equalità, vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella
equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e
possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini;
acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la
sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli altri
siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai,
può fare sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione
da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno
negli ordini loro. E perché il fare d'una provincia atta a
essere regno una republica, e d'una atta a essere republica farne uno
regno, è materia da uno uomo che per cervello e per
autorità sia raro: sono stati molti che lo hanno voluto fare e
pochi che lo abbino saputo condurre. Perché la grandezza della
cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte in modo gl'impedisce, che ne'
principii primi mancano.
Credo che a questa mia opinione, che dove sono gentiluomini non si
possa ordinare republica, parrà contraria la esperienza della
Republica viniziana, nella quale non possono avere alcuno grado se non
coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo esemplo
non ci fa alcuna oppugnazione, perché i gentiluomini in quella
Republica sono più in nome che in fatto; perché loro non
hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi
fondate in sulla mercanzia e cose mobili, e di più, nessuno di
loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma quel
nome di gentiluomo in loro è nome di degnità e di
riputazione, sanza essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa
che nell'altre città si chiamano i gentiluomini. E come le altre
republiche hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi, così
Vinegia si divide in gentiluomini e popolari: e vogliono che quegli
abbino, ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne siano al
tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le ragioni
altra volta dette. Constituisca, adunque, una republica colui dove
è, o è fatta, una grande equalità; ed all'incontro
ordini un principato dove è grande inequalità: altrimenti
farà cosa sanza proporzione e poco durabile.
56
Innanzi che seguino i grandi accidenti
in una città o in una
provincia,
vengono segni che gli pronosticono,
o uomini che gli predicano.
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli
moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una
città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da
rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E per non
mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto da frate
Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII
di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si
disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che
si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla
morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua
più alta parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di
quello edifizio. Sa ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero
Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo
fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo
medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi, oltre a di questo,
addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio,
lascerò. Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi
alla venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio
plebeio riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando
per la Via nuova, una voce, maggiore che umana, la quale lo ammuniva
che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo
che abbi notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non
abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole
alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le quali per naturali
virtù preveggendo le cose future, ed avendo compassione agli
uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono
con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere
la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie.
57
La Plebe insieme è gagliarda,
di per sé è debole.
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la
rovina della loro patria, andati ad abitare a Veio, contro la
constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo
disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno, infra
certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma. De' quali
editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto
beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti
ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole «Ex ferocibus
universis singuli metu suo obedientes fuere». E veramente, non si
può mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte,
che si dimostri in questo testo. Perché la moltitudine è
audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del loro
principe; dipoi, come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno
dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo che, di
quel che si dica uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si
debba tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo
mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è male
disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per
quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra
cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe
stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male
disposizioni che nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle: l'altre
sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a chi
rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto,
più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e,
dall'altra parte, non è cosa più debole: perché,
quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché
tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando
gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a
tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare
alla salute loro o col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una
moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha
subito a fare infra sé medesima uno capo che la corregga,
tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana,
quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per
salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo,
interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle soprascritte
parole che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi
comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole.
58
La moltitudine è più
savia
e più costante che uno
principe.
Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la
moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri
istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le
azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a
morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si
vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo
condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole
dello autore sono queste: «Populum brevi, posteaquam ab eo
periculum nullum erat, desiderium eius tenuit». Ed altrove,
quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di
Girolamo nipote di Ierone, dice: «Haec natura multitudinis est:
aut humiliter servit, aut superbe dominatur». Io non so se io mi
prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà,
che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico;
volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli
scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io non giudico
né giudicherò mai essere difetto difendere alcuna
opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la
forza. Dico, adunque, come di quello difetto di che accusano gli
scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini
particularmente, e massime i principi; perché ciascuno, che non
sia regolato dalle leggi, farebbe quelli medesimi errori che la
moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente,
perché ei sono e sono stati assai principi, e de' buoni e de'
savi ne sono stati pochi: io dico de' principi che hanno potuto rompere
quel freno che gli può correggere; intra i quali non sono quegli
re che nascevano in Egitto, quando, in quella antichissima
antichità, si governava quella provincia con le leggi; né
quegli che nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi
nascano in Francia; il quale regno è moderato più dalle
leggi che alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbia notizia.
E questi re che nascono sotto tali constituzioni non sono da mettere in
quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo
per sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine;
perché a rincontro si debbe porre una moltitudine medesimamente
regolata dalle leggi come sono loro; e si troverrà in lei essere
quella medesima bontà che noi vediamo essere in quelli, e
vedrassi quella né superbamente dominare né umilmente
servire: come era il popolo romano, il quale, mentre durò la
Republica incorrotta, non servì mai umilmente né mai
dominò superbamente; anzi con li suoi ordini e magistrati tenne
il suo grado onorevolmente. E quando era necessario commuoversi contro
a un potente, lo faceva; come si vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri
che cercorono opprimerla: e quando era necessario ubbidire a' Dittatori
ed a' Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il popolo romano
desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia,
perché ei desiderava le sue virtù, le quali erano state
tali, che la memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono
avuto forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perché
la è sentenzia di tutti gli scrittori, come la virtù si
lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto
desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di prigione, che
poco di poi lo condannò a morte; nonostante che si vegga de'
principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e
poi sommamente desideratola: come Alessandro, Clito ed altri suoi
amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo istorico nostro dice della
natura della moltitudine, non dice di quella che è regolata
dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era la
siragusana: la quale fece quegli errori che fanno gli uomini infuriati
e sciolti, come fece Alessandro Magno, ed Erode, ne' casi detti.
Però non è più da incolpare la natura della
moltitudine che de' principi, perché tutti equalmente errano,
quando tutti sanza rispetto possono errare. Di che, oltre a quel che ho
detto, ci sono assai esempli, ed intra gl'imperadori romani, ed intra
gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta
variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i
popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati;
affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne'
principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi
insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna:
perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che
un principe, eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe,
sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente
più che un popolo. E che la variazione del procedere loro nasce
non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo, e,
se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere
più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno e
l'altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo
vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio,
ed amatore della gloria e del bene commune della sua patria;
vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l'una cosa e
l'altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò
contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse
in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati
de' principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico,
come un popolo è più prudente, più stabile e di
migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia la
voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione
universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi;
talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male
ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte,
quando egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei
sono di equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che
non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose
gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte
volte erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono
molte più che quelle de' popoli. Vedesi ancora, nelle sue
elezioni ai magistrati, fare, di lunga, migliore elezione che un
principe, né mai si persuaderà a un popolo, che sia bene
tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il
che facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno
popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in
quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e
dell'altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo
romano: il quale in tante centinaia d'anni, in tante elezioni di
Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse
a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che
nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome,
poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le
città, dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo
augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state
sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da
poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non può
nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de' popoli
che quegli de' principi. Né voglio che si opponga a questa mia
opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato
testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti
i disordini de' popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le glorie
de' popoli e tutte quelle de' principi, si vedrà il popolo di
bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi
sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare vite civili,
ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel
mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono sanza dubbio alla gloria
di coloro che l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato
assai gli stati de' principi, hanno durato assai gli stati delle
republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d'essere regolato dalle
leggi: perché un principe che può fare ciò ch'ei
vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio che vuole, non
è savio. Se, adunque, si ragionerà d'un principe obligato
alle leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà
più virtù nel popolo che nel principe: se si
ragionerà dell'uno e dell'altro sciolto, si vedrà meno
errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno maggiori
rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli
può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può
essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è
alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il
ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della
malattia dell'uno e dell'altro: ché se a curare la malattia del
popolo bastan le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non
sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior
cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto,
non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del male
presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra
tanta confusione, uno tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il
contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera;
persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una
libertà. Sì che vedete la differenza dell'uno e
dell'altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che
hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi
ei temano che occupi il bene commune: quelle d'un principe sono contro
a chi ei temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai
popoli nasce perché de' popoli ciascuno dice male sanza paura e
liberamente, ancora mentre che regnano: de' principi si parla sempre
con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito,
poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente
capitolo, di quali confederazioni altri si possa più fidare; o
di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.
59
Di quale confederazione o lega
altri si può più fidare;
o di quella fatta
con una republica, o di quella fatta
con uno principe.
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con
l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed amicizia insieme:
ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una
republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede è
più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di
quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando
tutto, credo che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia
qualche disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per
forza non ti saranno né da uno principe né da una
republica osservati; credo che, quando la paura dello stato venga,
l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti
userà ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore
delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse
dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come
in città amica ed a lui obligata, non fu ricevuto da quella: il
che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle
genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in
Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo
adietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali
cose si vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più
umanità usata e meno ingiuria dalla republica, che dal principe.
Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto la
medesima fede. E se si troverrà o una republica o uno principe,
che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere
questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto
bene occorrere che egli sia amico d'uno principe potente, che, se bene
non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col
tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né
accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli
principi del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E
quanto alle republiche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che
aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato
ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si
troverrà qualche stabilità più nelle republiche,
che ne' principi. Perché, sebbene le republiche avessero quel
medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo avere il
moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a
risolversi che il principe, e per questo perranno più a rompere
la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le
republiche sono, di lunga, più osservanti degli accordi, che i
principi. E potrebbesi addurre esempli, dove uno minimo utile ha fatto
rompere la fede a uno principe, e dove una grande utilità non ha
fatto rompere la fede a una republica: come fu quello partito che
propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che
aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma
non lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si
toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse
Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse
a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come
l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro, era
in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che
faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde
Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle essere
utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al tutto lo
ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gli altri
principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il rompere
la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa
ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni
istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci
minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più
di lui che del principe.
60
Come il Consolato e qualunque
altro magistrato in Roma
si dava sanza rispetto di età.
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana,
poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi
cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che il
rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si
andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la
fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto
Consolo in ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi
soldati, disse come il Consolato era «praemium virtutis, non
sanguinis». La quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da
disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo per
necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in
ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come
altra volta si è detto: perché e' non si può dare
agli uomini disagio sanza premio, né si può tôrre
loro la speranza di conseguire il premio sanza pericolo. E però
a buona ora convenne che la Plebe avessi speranza di avere il
Consolato: e di questa speranza si nutrì un pezzo sanza averlo;
dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che si venisse allo
effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa
gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si
disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a
fare questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo
non ha replica anzi è necessaria: perché nello eleggere
uno giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio,
conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo
facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane
è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa
notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la città non
se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che fosse
invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della
quale in quella età la patria sua si poteva valere: come si
valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti
altri, che trionfarono giovanissimi.