Niccolò
Machiavelli
Discorsi sopra la Prima Deca
Di Tito Livio
(1513 - 1519)
Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi
tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate
partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono
state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute;
ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si ricordano nella loro
giovanezza avere vedute. E quando questa loro opinione sia falsa, come
il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni
che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle
cose antiche non s'intenda al tutto la verità; e che di quelle
il più delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a
quelli tempi infamia; e quelle altre che possano partorire loro gloria,
si rendino magnifiche ed amplissime. Perché il più degli
scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per fare
le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro
è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo
illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due
provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di
maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli uomini le
cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due
potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo
quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario
interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le quali, per la
intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna parte nascoste, e
conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre cose che ti
dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche molto inferiori,
ancora che, in verità, le presenti molto più di quelle di
gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose pertinenti
alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé, che i tempi
possono tôrre o dare loro poco più gloria che per loro
medesime si meritino; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e
costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono sì chiari
testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e
biasimare soprascritta: ma non essere già sempre vero che si
erri nel farlo. Perché qualche volta è necessario che
giudichino la verità; perché, essendo le cose umane
sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una città
o una provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo
eccellente, ed, un tempo, per la virtù di quello ordinatore,
andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora in tale
stato, ed ei laudi più gli antichi tempi che i moderni,
s'inganna; ed è causato il suo inganno da quelle cose che di
sopra si sono dette. Ma coloro che nascano dipoi, in quella
città o provincia, che gli è venuto il tempo che la
scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano. E
pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere
stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono
quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono, di
provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quegli
regni antichi, che variavano dall'uno all'altro per la variazione de'
costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa
differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtù in
Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne
venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo Imperio romano non è
seguito Imperio che sia durato, né dove il mondo abbia ritenuta
la sua virtù insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di
molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de'
Franchi, il regno de' Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della
Magna; e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose, ed
occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano
orientale. In tutte queste provincie, adunque, poiché i Romani
rovinorno, ed in tutte queste sette è stata quella virtù,
ed è ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con
vera laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati
più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in
Italia ed in Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o in
Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli
altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno
maravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da
ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza
di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni
ragione bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili,
quanto ei sono più in coloro che seggono pro tribunali,
comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli
uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo
presente o l'antico, in quelle cose dove per l'antichità e' non
ne ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de' suoi tempi;
non doverebbe corrompersi ne' vecchi nel giudicare i tempi della
gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente
conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti
i tempi della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono
quegli medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non
variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri
appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che
nella gioventù. Perché, mancando gli uomini, quando
gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza,
è necessario che quelle cose che in gioventù parevano
loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili
e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne
accusano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani
insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e volere
desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche;
ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed uno
fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti
tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare
questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so,
adunque, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che si
ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi
degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E veramente, se la
virtù che allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino
più chiari che il sole andrei col parlare più rattenuto,
dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni. Ma
essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò
animoso in dire manifestamente quello che io intenderò di quelli
e di questi tempi; acciocché gli animi de' giovani che questi
mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar
quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione.
Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la
malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di
quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne'
discorsi del superior libro, parlato delle diliberazioni fatte da'
Romani, pertinenti al di dentro della città, in questo parleremo
di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello
imperio suo.
1
Quale fu più cagione dello
imperio
che acquistarono i romani, o la
virtù,
o la fortuna.
Molti hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo
scrittore, che 'l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse
più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra le
altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si
dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad
alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti Livio;
perché rade volte è che facci parlare ad alcuno Romano,
dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La
qual cosa io non voglio confessare in alcuno modo, né credo
ancora si possa sostenere. Perché, se non si è trovata
mai republica che abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non
si è trovata mai republica che sia stata ordinata a potere
acquistare come Roma. Perché la virtù degli eserciti gli
fecero acquistare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo suo
proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece mantenere
lo acquistato: come di sotto largamente in più discorsi si
narrerà. Dicono costoro, che non avere mai accozzate due
potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non
virtù del Popolo romano; perché e' non ebbero guerra con
i Latini, se non quando egli ebbero, non tanto battuti i Sanniti,
quanto che la guerra fu fatta da' Romani in defensione di quelli; non
combatterono con i Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed
enervati con le spesse rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di
queste potenze intere si fossero, quando erano fresche, accozzate
insieme, senza dubbio si può facilmente conietturare che ne
sarebbe seguito la rovina della romana Republica. Ma, comunque questa
cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessero due potentissime
guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel nascere
dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra
nascesse. Il che si può facilmente vedere per l'ordine delle
guerre fatte da loro: perché, lasciando stare quelle che fecero
prima che Roma fosse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che
combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre che questi popoli
furono potenti, non scesero contro di loro altre genti. Domi costoro,
nacque la guerra contro a' Sanniti; e benché, innanzi che
finisse tale guerra, i popoli latini si ribellassero da' Romani;
nondimeno, quando tale ribellione seguì, i Sanniti erano in lega
con Roma, e con i loro eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia
latina. I quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte
rotte date a' Sanniti le loro forze, nacque la guerra de' Toscani; la
quale composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di
Pirro in Italia. Il quale come fu ributtato, e rimandato in Grecia,
appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: né prima fu tale
guerra finita, che tutti i Franciosi, e di là e di qua
dall'Alpi, congiurarono contro ai Romani; tanto che intra Populonia e
Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con massima
strage superati. Finita questa guerra, per spazio di venti anni ebbero
guerre di non molta importanza; perché non combatterono con
altri che con Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che nacque la seconda guerra
cartaginese, la quale per sedici anni tenne occupata Italia. Finita
questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale
finita, venne quella d'Antioco e d'Asia. Dopo la quale vittoria, non
restò in tutto il mondo né principe né republica
che, di per sé, o tutti insieme, che si potessero opporre alle
forze romane.
Ma innanzi a quella ultima vittoria chi considererà bene
l'ordine di queste guerre, ed il modo del procedere loro, vi
vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù e
prudenza grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione di tale
fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa
certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta
riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per
sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà che
ciascuno d'essi mai lo assalterà, se non necessitato; in modo
che e' sarà quasi come nella elezione di quel potente, fare
guerra con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli altri con
la sua industria quietare. E' quali, parte rispetto alla potenza sua,
parte ingannati da que' modi ch'egli terrà per adormentargli, si
quietano facilmente; quegli altri potenti, che sono discosto e che non
hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non
appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio
venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se
non con le forze proprie le quali dipoi non bastono, sendo colui
diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare come i Sanniti
stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Volsci e gli Equi; e per
non essere troppo prolisso, mi farò da' Cartaginesi: i quali
erano di gran potenza e di grande estimazione, quando i Romani
combattevano co' Sanniti e con i Toscani; perché di già
tenevano tutta l'Africa, tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano
dominio in parte della Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo
essere discosto ne' confini dal popolo romano, fece che non pensarono
mai di assaltare quello, né di soccorrere i Sanniti ed i
Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che crescano più
tosto in loro favore, collegandosi con quegli e cercando l'amicizia
loro. Né si avviddono prima dello errore fatto, che i Romani,
domi tutti i popoli mezzi in fra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a
combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne
questo medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e così a
Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre
che il Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro lo
superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da
lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbero in questa parte i
Romani, l'arebbono tutti quegli principi che procedessono come i
Romani, e fossero della medesima virtù che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo
romano nello entrare nelle provincie d'altrui, se nel nostro trattato
de' Principati non ne avessimo parlato a lungo: perché, in
quello, questa materia è diffusamente disputata. Dirò
solo questo lievemente, come sempre s'ingegnarono avere nelle provincie
nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o
mezzo a tenerla: come si vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in
Sannio, de' Camertini in Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de'
Saguntini in Spagna, di Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di
Eumene ed altri principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in
Francia. E così non mancorono mai di simili appoggi, per potere
facilitare le imprese loro, e nello acquistare le provincie e nel
tenerle. Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori.
E perché ciascuno possa meglio conoscere, quanto possa
più la virtù che la fortuna loro ad acquistare quello
imperio, noi discorrereno, nel seguente capitolo, di che qualità
furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a combattere, e quanto
erano ostinati a difendere la loro libertà.
2
Con quali popoli i Romani
ebbero a combattere,
e come ostinatamente quegli
difendevono
la loro libertà.
Nessuna cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli
d'intorno e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in
quelli tempi molti popoli avevano alla libertà, la quale tanto
ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù
sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti esempli si conosce
a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella; quali
vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero loro occupata.
Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali danni i popoli e le
città ricevino per la servitù. E dove in questi tempi ci
è solo una provincia, la quale si possa dire che abbi in
sé città libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie
erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali
noi parliamo al presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la
Toscana da Lombardia, infino alla punta d'Italia, erano tutti popoli
liberi; come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli
che in quel resto d'Italia abitavano. Né si ragiona mai che vi
fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsenna re
di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la
istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a
campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva della sua
libertà, e tanto odiava il nome del principe, che, avendo fatto
i Veienti per loro difensione uno re in Veio, e domandando aiuto a'
Toscani contro a' Romani, quegli, dopo molte consulte fatte,
deliberarono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vivessono
sotto il re; giudicando non essere bene difendere la patria di coloro
che l'avevano di già sottomessa a altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne' popoli questa affezione del vivere libero;
perché si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato
nè di dominio né di ricchezza, se non mentre sono state
in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a
considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni,
poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma
sopra tutto maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza
venne Roma, poiché la si liberò da' suoi Re. La ragione
è facile a intendere; perché non il bene particulare, ma
il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza
dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle
republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo, si
esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di quello
privato, e' sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono
tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono
oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove
il più delle volte quello che fa per lui, offende la
città; e quello che fa per la città, offende lui.
Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere
libero, il manco male che ne resulti a quelle città è non
andare più innanzi, né crescere più in potenza o
in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene
loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse
uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virtù d'arme
ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a
quella republica, ma a lui proprio: perché e' non può
onorare nessuno di quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli
tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non
può ancora le città che esso acquista, sottometterle o
farle tributarie a quella città di che egli è tiranno:
perché il farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo
stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca
lui. Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la
sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre
ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide. Non
è maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto odio
perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che il nome
della libertà fusse tanto stimato da loro: come intervenne
quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in Siracusa,
che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non
era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e
pigliare l'armi contro agli ucciditori di quello; ma come ei
sentì che in Siracusa si gridava libertà, allettato da
quel nome, si quietò tutto, pose giù l'ira, contro a'
tirannicidi, e pensò come in quella città si potessi
ordinare uno vivere libero. Non è maraviglia ancora, che e'
popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli che gli hanno
occupata la libertà. Di che ci sono stati assai esempli, de'
quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira, città di
Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa
quella provincia in due parti, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi
l'altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città, che erano
infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di Sparta, l'altra di
Atene: ed essendo occorso che nella detta città prevalessono i
nobili, e togliessono la libertà al popolo, i popolari per mezzo
degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le mani addosso a tutta la
Nobilità, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro;
donde gli traevono a otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli
in esilio in diverse parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano
morire. Di che sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in
quanto era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed
armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano
entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo,
a questo romore fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di quel
luogo, e quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora in
detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili;
talché si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica
una libertà che ti è suta tolta, che quella che ti
è voluta tôrre.
Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i
popoli fossero più amatori della libertà che in questi;
credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco
forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra
dall'antica. Perché, avendoci la nostra religione mostro la
verità e la vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde
i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene,
erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può
considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla
magnificenza de' sacrifizi loro, alla umiltà de' nostri; dove
è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna
azione feroce o gagliarda. Qui non mancava la pompa né la
magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l'azione del
sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi
moltitudine d'animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli
uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non
beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani
di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha
glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli
attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e
nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza
dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a
fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu
abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a
fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi
renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i
quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come
l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa
più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E
benché paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il
Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini,
che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio, e non
secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci
permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la
vuole che noi l'amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che
noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì
false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche
quante si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne'
popoli tanto amore alla libertà quanto allora: ancora che io
creda più tosto essere cagione di questo, che lo Imperio romano
con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e'
viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia risoluto, non si
sono potute le città ancora rimettere insieme né
riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello
Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima parte del
mondo trovarono una congiura di republiche armatissime ed ostinatissime
alla difesa della libertà loro. Il che mostra che il popolo
romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute
superare.
E per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de'
Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che
fussero sì potenti, e l'arme loro sì valide, che
potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di quarantasei
anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute nel
paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e
tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto
ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virtù
romana non fosse stato assaltato. E facil cosa è considerare
donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo disordine;
perché tutto viene dal vivere libero allora, ed ora dal vivere
servo. Perché tutte le terre e le provincie che vivono libere in
ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti grandissimi.
Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e' connubi
più liberi, più desiderabili dagli uomini: perché
ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire,
non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non
solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante
la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze
multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e
quelle che vengono dalle arti. Perché ciascuno volentieri
multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede,
acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono
a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro viene maravigliosamente
a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che
vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto
più è dura la servitù. E di tutte le
servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una
republica: l'una, perché la è più durabile, e
manco si può sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine
della republica è enervare ed indebolire, per accrescere il
corpo suo, tutti gli altri corpi. Il che non fa uno principe che ti
sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro,
destruttore de' paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli
uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in sé
ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città
sue suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti
gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come
libere, elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della
servitù in quale vengono le città servendo a un
forestiero, perché di quelle d'uno loro cittadino ne parlai di
sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello che si è
detto, non si maraviglierà della potenza che i Sanniti avevano,
sendo liberi, e della debolezza in che e' vennono poi, servendo: e Tito
Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra di
Annibale, dove e' mostra che, sendo i Sanniti oppressi da una legione
di uomini che era in Nola, mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo
che gli soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono, che avevano
per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e
propri loro capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti
consolari e dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti,
che non si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che
era in Nola.
3
Roma divenne gran città
rovinando le città
circunvicine,
e ricevendo i forestieri facilmente
a' suoi onori.
«Crescit interea Roma Albae ruinis». Quegli che disegnono
che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni
industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché, sanza
questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una
città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per
amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono
venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti
volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando
gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in
tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma abitavano
ottantamila uomini da portare arme. Perché i Romani vollono fare
ad uso del buono cultivatore; il quale, perché una pianta
ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi
rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel
piede di quella pianta, possano col tempo nascervi più verdi e
più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare
imperio, fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di
Atene: le quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di
ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio
romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata
come quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione, che la
preallegata: perché Roma, per avere ingrossato per quelle due
vie il corpo della sua città, potette di già mettere in
arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai
ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma
più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo
di procedere. Perché Licurgo, fondatore della republica
spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente
risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni
cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a
non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed alle altre
conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che
in quella sua republica si spendesse monete di cuoio, per tor via a
ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi
alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai
ingrossare di abitatori. E perché tutte le azioni nostre imitano
la natura, non è possibile né naturale che uno pedale
sottile sostenga uno ramo grosso. Però una republica piccola non
può occupare città né regni che sieno più
validi né più grossi di lei; e, se pure gli occupa,
gl'interviene come a quello albero che avesse più grosso il ramo
che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento lo
fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo occupate
tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe,
che tutte le altre città se gli ribellarono, e rimase il pedale
solo sanza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il
piè sì grosso, che qualunque ramo poteva facilmente
sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che
di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra
Tito Livio in due parole, quando disse: «Crescit interea Roma
Albae ruinis».
4
Le republiche hanno tenuti
tre modi circa lo ampliare.
Chi ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno
tenuti tre modi circa lo ampliare. L'uno è stato quello che
osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più
republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra né di
autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi l'altre
città compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i
Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli Achei e gli
Etoli. E perché i Romani feciono assai guerra co' Toscani, per
mostrare meglio le qualità di questo primo modo, mi
distenderò in dare notizia di loro particularmente. In Italia,
innanzi allo Imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra
potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne sia particulare
istoria, pure c'è qualche poco di memoria, e qualche segno della
grandezza loro; e si sa come e' mandarono una colonia in su 'l mare di
sopra, la quale chiamarono Adria, che fu sì nobile, che la dette
nome a quel mare che ancora i Latini chiamono Adriatico. Intendesi
ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a
piè delle Alpi che ora cingono il grosso di Italia; non ostante
che, dugento anni innanzi che i Romani crescessono in molte forze,
detti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si chiama la
Lombardia; la quale provincia fu occupata da' Franciosi: i quali, mossi
o da necessità o dalla dolcezza dei frutti, e massime del vino
vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i
provinciali, si posono in quello luogo, dove edificarono di molte
cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano
allora; la quale tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono,
adunque, i Toscani con quella equalità, e procedevano nello
ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici
città, tra le quali era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra,
e simili: i quali per via di lega governavano lo Imperio loro;
né poterono uscire d'Italia con gli acquisti; e di quella ancora
rimase intatta gran parte, per le cagioni che di sotto si diranno.
L'altro modo è farsi compagni: non tanto però che non ti
rimanga il grado del comandare, la sedia dello Imperio, ed il titolo
delle imprese: il quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo
è farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli
Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al
tutto inutile; come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche:
le quali non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel
dominio che le non potevano tenere. Perché, pigliare cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle che fussono
consuete a vivere libere, è una cosa difficile e faticosa. E se
tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né comandare
né reggere. Ed a volere essere così fatto, è
necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua
città di popolo. E perché queste due città non
fecero né l'uno né l'altro, il modo di procedere loro fu
inutile. E perché Roma, la quale è nello esemplo del
secondo modo, fece l'uno e l'altro, però salse a tanta eccessiva
potenza. E perché la è stata sola a vivere così,
è stata ancora sola a diventare tanto potente: perché,
avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di
molte cose con equali leggi vivevano seco; e, dall'altro canto, come di
sopra è detto, sendosi riserbata sempre la sedia dello Imperio
ed il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se
ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare
sé stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire con gli
eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti
coloro che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di
essere suggetti, ed avendo governatori romani, ed essendo stati vinti
da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro
che Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si
trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani, ed oppressi da una
grossissima città come era Roma; e quando ei s'avviddono dello
inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi;
tanta autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e
tanta forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima
ed armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi
delle ingiurie, le congiurassero contro, furono in poco tempo perditori
della guerra, peggiorando le loro condizioni; perché, di
compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere,
come è detto, è stato solo osservato da' Romani:
né può tenere altro modo una republica che voglia
ampliare; perché la esperienza non ce ne ha mostro nessuno
più certo o più vero.
Il modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gli Achei e
gli Etoli e come oggi vivono i Svizzeri è, dopo a quello de'
Romani, il migliore modo; perché, non si potendo con quello
ampliare assai, ne séguita due beni; l'uno, che facilmente non
ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni
facilmente. La cagione del non potere ampliare è lo essere una
republica disgiunta e posta in varie sedie: il che fa che difficilmente
possono consultare e diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di
dominare: perché, essendo molte comunità a participare di
quel dominio, non stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica
sola, che spera di goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per
concilio, e conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione,
che quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per
sperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale
non ci è esemplo che mostri che si sia trapassato: e questo
è di aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi,
non cercare di andare più avanti: perché, sendo giunti a
grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non cercono maggiore
dominio; sì perché la necessità non gli stringe di
avere più potenza; sì per non conoscere utile negli
acquisti, per le cagioni dette di sopra. Perché gli arebbono a
fare una delle due cose; o a seguitare di farsi compagni, e questa
moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a farsi sudditi, e
perché e' veggono in questo difficultà, e non molto utile
nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a tanto
numero che paia loro vivere sicuri, si voltono a due cose: l'una a
ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; e per questi mezzi trarre
da ogni parte danari, i quali facilmente infra loro si possono
distribuire: l'altra è militare per altrui, e pigliare soldo da
questo e da quel principe che per sue imprese gli solda; come si vede
che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati.
Di che n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a
parlamento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e
ragionando d'accordo alla presenza d'uno pretore degli Etoli, e venendo
a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato la
avarizia e la infidelità dicendo che gli Etoli non si
vergognavano militare con uno, e poi mandare loro uomini ancora a
servigio del nimico; talché molte volte intra due contrari
eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come
questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha
fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi
è stato sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando
pure egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo
modo di fare sudditi è inutile nelle republiche armate, in
quelle che sono disarmate è inutilissimo: come sono state ne'
nostri tempi le republiche d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero
modo quello che tennono i Romani, il quale è tanto più
mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo Roma
non è stato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si
trovano solo i Svizzeri e la lega di Svezia che gli imita. E, come nel
fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati da Roma,
così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non
sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n'è
tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili,
alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa
ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa
provincia. E quando la imitazione de' Romani paresse difficile, non
doverrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime a'
presenti Toscani. Perché, se quelli non poterono, per le cagioni
dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in
Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che
fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio e d'arme, e
massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e gloria fu
prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu tanto
spenta, che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse
grande, al presente non ce n'è quasi memoria. La quale cosa mi
ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose: come nel
seguente capitolo si discorrerà.
5
Che la variazione delle sètte
e delle lingue, insieme con
l'accidente
de' diluvii o della peste, spegne
le memorie delle cose.
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo
che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera, e'
sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila
anni; quando e' non si vedesse come queste memorie de' tempi per
diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono dagli uomini,
parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le variazioni
delle sètte e delle lingue. Perché, quando e' surge una
setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo
è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli
occorre che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa,
la spengono facilmente. La quale cosa si conosce considerando e' modi
che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha
cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta
ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli
è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di quella: il che è nato per avere quella
mantenuta la lingua latina; il che feciono forzatamente, avendo a
scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se l'avessono
potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli
feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge
i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione
cristiana, vedrà con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte
le memorie antiche, ardendo le opere de' poeti e degli istorici,
ruinando le imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun
segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione
egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto,
che quello che ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta
Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei.
E perché queste sètte in cinque o in seimila anni variano
due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel
tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa,
e non è prestato loro fede: come interviene alla istoria di
Diodoro Siculo, che, benché e' renda ragione di quaranta o
cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io credo, che sia
cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la
umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo.
E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d'acque: e
la più importante è questa ultima, sì
perché la è più universale, sì
perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e
rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la
possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne
avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la
perverte a suo modo; talché ne resta solo a' successori quanto
ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste
e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne
sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo
effetto della oblivione delle cose, sì perché e' pare
ragionevole ch'e' sia: perché la natura, come ne' corpi
semplici, quando e' vi è ragunato assai materia superflua, muove
per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale
è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo
misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono
ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né
possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e
quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la
può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi
per uno de' tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi
e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori. Era
dunque, come di sopra è detto, già la Toscana potente,
piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua
lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana.
Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria
del nome.
6
Come i Romani procedevano
nel fare la guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno
ora come e' procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si
vedrà con quanta prudenzia ei deviarono dal modo universale
degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza.
La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione,
è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in modo con
essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua.
È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare
di non spendere; anzi fare ogni cosa con utilità del publico
suo. Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e
modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i
Franciosi, corte e grosse; perché, venendo in campagna con
eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e
Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte
quelle che feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de'
Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci,
quale in venti dì. Perché l'uso loro era questo: subito
che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo
incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i
nimici, perché non fosse guasto loro il contado affatto venivano
alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i quali
terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano ad una
colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva ad essere
guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che avevano
quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa teneva
quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro,
o più forte, o più utile: perché mentre che i
nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono
usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani
uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quegli, e fatta e
vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione, si
tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di mano in mano
riputazione sopra di loro, e forze in sé medesimi. E questo modo
vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che
fu dopo la ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra
lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non
essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E
benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di
questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e per farle
più discosto la necessità gli tenesse più in su'
campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto,
secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le
colonie. Perché nel primo ordine gli tenne, circa il fare le
guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i
quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei mesi alle stanze,
volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie gli
tenne l'utile e la commodità grande che ne risultava. Variarono
bene alquanto circa le prede, delle quali non erano così
liberali come erano stati prima; sì perché e' non pareva
loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì
perché, essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di
quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le imprese
con tributi della città. Il quale ordine in poco tempo fece il
loro erario ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il
distribuire la preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma
arricchiva della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie
ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a uno Consolo
non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro
ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i
Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto,
sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le
scorrerie e con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più
ricchi e più potenti.
7
Quanto terreno i Romani
davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile
trovarne la verità. Perché io credo ne dessino più
o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. Giudicasi che
ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fussi parca: prima, per
potere mandare più uomini, sendo quelli diputati per guardia di
quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri a casa, non era
ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora.
E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e
distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra; che
sono, al modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte,
e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato, bastasse.
È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici dove
ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del
legname per ardere; sanza le quali cose non può una colonia
ordinarsi.
8
La cagione perché i popoli si
partono
da' luoghi patrii, ed inondano
il paese altrui.
Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere
nella guerra osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati
da' Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le si
fanno di dua generazioni guerre. L'una è fatta per ambizione de'
principi o delle republiche, che cercano di propagare lo imperio; come
furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che fecero i
Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una potenza con
l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto gli
abitatori d'una provincia; perché e' basta, al vincitore, solo
la ubbidienza de' popoli, e il più delle volte gli lascia vivere
con le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne' loro beni. L'altra
generazione di guerra è quando uno popolo intero con tutte le
sue famiglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla
guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per
comandarla, come quegli di sopra, ma per possederla tutta
particularmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di
queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino, quando dice
che, vinto Iugurta, si sentì il moto de' Franciosi che venivano
in Italia: dove ei dice che il Popolo romano con tutte le altre genti
combatté solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi
combatté sempre per la salute di ciascuno. Perché a un
principe o a una republica, che assalta una provincia, basta spegnere
solo coloro che comandano; ma a queste populazioni conviene spegnere
ciascuno, perché vogliono vivere di quello che altri viveva. I
Romani ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella
quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che
avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e
fattone loro sedia; della quale Tito Livio ne allega due cagioni: la
prima, come di sopra si disse, che furono allettati dalla dolcezza
delle frutte e del vino d'Italia, delle quali mancavano in Francia; la
seconda che, essendo quel regno francioso multiplicato in tanto di
uomini, che non vi si potevono più nutrire, giudicarono i
principi di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una parte di
loro andasse a cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione,
elessono, per capitani di quegli che si avevano a partire, Belloveso e
Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de' quali Belloveso venne in Italia, e
Sicoveso passò in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso
nacque la occupazione di Lombardia, e di quindi la guerra che prima i
Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la
prima guerra cartaginese, quando intra Piombino e Pisa ammazzarono
più che dugentomila Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e'
Cimbri vennero in Italia: i quali, avendo vinti più eserciti
romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre
guerre pericolosissime. Né era necessario minore virtù a
vincerle, perché si vide poi, come la virtù romana
mancò e che quelle armi perderono il loro antico valore, fu
quello imperio destrutto da simili popoli: i quali furono Gotti,
Vandali, e simili, che occuparono tutto lo Imperio occidentale.
Escono tali popoli de' paesi loro, come di sopra si disse, cacciati
dalla necessità: e la necessità nasce o dalla fame, o da
una guerra ed oppressione che ne' paesi propri è loro fatta:
talché e' son constretti cercare nuove terre. E questi tali, o
e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano ne' paesi d'altrui,
ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno,
mutano il nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli
che occuparono lo Imperio romano. Perché questi nomi nuovi che
sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da
essere state nomate così da nuovi occupatori: come è la
Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava
Gallia Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi, che
così si chiamavono quelli popoli che la occuparono: la
Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra,
Britannia; e molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali
sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea
quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di
sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria sede
per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio
addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali,
sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non potere loro
resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, e lasciare il
paese proprio, che, per volere salvare quello, perdere ancora loro; e
levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Africa, dove posero la
loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quegli luoghi
trovarono. E così quegli che non avevano potuto difendere il
loro paese, potettono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive
la guerra che fece Belisario coi Vandali, occupatori della Africa,
riferisce avere letto lettere scritte in certe colonne, ne' luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: «Nos Maurusii, qui
fugimus a facie Jesu latronis filii Navae». Dove apparisce la
cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli
formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessità; e se
e' non riscontrano buone armi, non mai saranno sostenuti. Ma quando
quegli che sono costretti abbandonare la loro patria non sono molti,
non sono sì pericolosi come quelli popoli di chi si è
ragionato; perché non possono usare tanta violenza, ma conviene
loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, mantenervisi per
via d'amici e di confederati: come si vede che fece Enea, Didone, i
Massiliesi e simili; i quali tutti, per consentimento de' vicini,
dov'e' posono, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono
usciti quasi tutti, de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove,
per essere assai uomini, ed il paese di qualità da non gli
potere nutrire, sono forzati uscirne, avendo molte cose che gli
cacciono, e nessuna che gli ritenga. E se, da cinquecento anni in qua,
non è occorso che alcuni di questi popoli abbiano inondato
alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima, la grande
evacuazione che fece quel paese nella declinazione dello Imperio, donde
uscirono più di trenta popoli. La seconda è che la Magna
e l'Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro
paese bonificato in modo che vi possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte,
sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che
gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere
vincergli o passarli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi
de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia
sostenuti; e spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi loro, la
Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli eserciti
tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati popoli.
9
Quali cagioni comunemente faccino
nascere le guerre intra i potenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che
erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce
infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene a caso o
la è fatta nascere da colui che disidera muovere la guerra.
Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso; perché
la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi
ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e
ricorrendo a Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono
forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e
pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore
fuggire. Perché e' pareva bene ai Romani ragionevole non potere
difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti amici, ma pareva ben
loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati;
giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, tôrre la
via a tutti quegli che disegnassino venire sotto la potestà
loro. Perché, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non
la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione
dette principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la
defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu
ancora a caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra
che nacque infra loro; perché Annibale capitano cartaginese
assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per
offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione di
combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove
guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno,
e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio
fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un
gran tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore
assalterò io uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime,
che, nello assaltare lo amico, o ei si risentirà, ed io
arò lo intento mio di farli guerra, o, non si risentendo, si
scoprirà la debolezza o la infidelità sua, di non
difendere uno suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose
è per tôrli riputazione, e per fare più facili i
disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de' Campani,
circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di
più, quale rimedio abbia una città che non si possa per
sé stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello
che l'assalta: il quale è darsi liberamente a quello che tu
disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani, e i
Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo
difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze di
Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
10
I danari non sono il nervo della
guerra,
secondo che è la comune
opinione.
Perché ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma
non finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa,
misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere
tanta prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta
s'ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal sito, o dalla
benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi proprie.
Perché le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben non
te le danno; e per sé medesime sono nulla; e non giovono alcuna
cosa sanza l'armi fedeli. Perché i danari assai non ti bastano
sanza quelle; non ti giova la fortezza del paese e la fede e
benivolenza degli uomini non dura, perché questi non ti possono
essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni
luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I
danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno predare
più presto. Né può essere più falsa quella
comune opinione che dice, che i danari sono il nervo della guerra. La
quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che fu
intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che, per difetto
di danari, il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto;
ché se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in
Grecia della morte di Alessandro, donde ei sarebbe rimaso vincitore
sanza combattere: ma, mancandogli i danari, e dubitando che lo esercito
suo per difetto di quegli non lo abbandonasse, fu constretto tentare la
fortuna della zuffa: talché Quinto Curzio per questa cagione
afferma, i danari essere il nervo della guerra. La quale sentenza
è allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che
basti, seguitata. Perché, fondatisi sopra quella, credono che
basti loro, a difendersi, avere tesoro assai, e non pensano che se il
tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci
arebbono vinto i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i
Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i Fiorentini insieme non
arebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria, nipote di
papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono
vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati stimano essere il
nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de' Lidii
mostrò a Solone ateniese, fu uno tesoro innumerabile, e
domandando quel che gli pareva della potenza sua, gli rispose Solone,
che per quello e' non lo giudicava più potente; perché la
guerra si faceva con il ferro e non con l'oro, e che poteva venire uno
che avessi più ferro di lui, e torgliene. Oltre a di questo,
quando, dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi
passò in Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori
a il re di Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mostrare
la potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ariento
assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma la
pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli quell'oro: e
così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua
difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo
erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza potere
essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il
nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l'oro non
è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono
bene sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro voluto
fare la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe
bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese
che feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma, faccendo
le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell'oro,
perché da quegli che gli temevano era portato loro infino ne'
campi. E se quel re spartano per carestia di danari ebbe a tentare la
fortuna della zuffa, intervenne a lui quello, per conto de' danari, che
molte volte è intervenuto per altre cagioni: perché si
è veduto che, mancando a uno esercito le vettovaglie, ed essendo
necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito
sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole, e dove la
fortuna ti può in qualche modo favorire. Ancora è
intervenuto molte volte, che, veggendo uno capitano al suo esercito
inimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare
la fortuna della zuffa; o, aspettando ch'egli ingrossi, avere a
combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si
è visto (come intervenne a Asdrubale, quando nella Marca fu
assaltato da Claudio Nerone, insieme con l'altro console romano) che un
capitano, necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre elegge
il combattere; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo,
potere vincere; ed in quello altro avere a perdere in ogni modo. Sono,
adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche volta
può essere la carestia de' danari; né per questo si
debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, più che
le altre cose che inducano gli uomini a simile necessità. Non
è, adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra,
ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma
è una necessità che i soldati buoni per sé
medesimi la vincono; perché è impossibile che ai buoni
soldati manchino i danari, come che i danari per loro medesimi trovino
i buoni soldati. Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni
istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli
Ateniesi a fare guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e'
potevano vincere quella guerra con la industria e con la forza del
danaio. E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino
qualche volta, in ultimo la perderono; e valson più il consiglio
e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene.
Ma Tito Livio è di questa opinione più vero testimone che
alcuno altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in
Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere tre cose necessarie
nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona
fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero in
queste cose, fa dipoi la sua conclusione sanza ricordare mai i danari.
Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Sidicini che
prendessono l'armi per loro contro ai Sanniti, misurare la potenza loro
dai danari, e non da' soldati: perché, preso ch'egli ebbero
partito di aiutargli, dopo due rotte furono constretti farsi tributari
de' Romani, se si vollono salvare.
11
Non è partito prudente fare
amicizia
con uno principe che abbia più
opinione
che forze.
Volendo Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello
aiuto de' Campani, e lo errore de' Campani a credere potergli
difendere, non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo:
«Campani magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad
praesidium attulerunt». Dove si debbe notare che le leghe che si
fanno coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti per
la distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua
cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne fidano:
come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479,
il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché, essendo amici
del re di Francia, trassono di quella amicizia «magis nomen, quam
praesidium», come interverrebbe ancora a quel principe, che,
confidatosi di Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa;
perché questa è una di quelle amicizie che arrecherebbe a
chi la facesse «magis nomen, quam praesidium», come si
dice, in questo testo, che arrecò quella de' Capovani a'
Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere
loro avere più forze che non avevano. E così fa la poca
prudenzia degli uomini, qualche volta, che, non sappiendo né
potendo difendere sé medesimi, vogliono prendere impresa di
difendere altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo gli
eserciti romani allo incontro dello esercito Sannite, mandarono
ambasciadori al Console romano, a fargli intendere come ei volevano
pace intra quegli due popoli, e come erano per fare guerra contro a
quello che dalla pace si discostasse; talché il Console,
ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori fece
sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò che andasse a
trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la opera e non con le
parole, di che risposta essi erano degni.
Ed avendo nel presente capitolo ragionato de' partiti che pigliono i
principi, al contrario, per la difesa d'altrui, voglio, nel seguente,
parlare di quegli che si pigliano per la difesa propria.
12
S'egli è meglio, temendo di
essere
assaltato, inferire o aspettare la
guerra.
Io ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra,
qualche volta disputare, se sono dua principi quasi di equali forze, e
quello più gagliardo abbi bandito la guerra contro a
quell'altro, quale sia migliore partito per l'altro, o aspettare il
nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare in casa ed assaltare
lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi difende lo
andare assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro,
quando, arrivato in su' confini de' Massageti per fare loro guerra, la
loro regina Tamiri gli mandò a dire, che eleggessi quale de' due
partiti volesse; o entrare nel regno suo, dove ella lo aspetterebbe; o
volesse che ella venisse a trovare lui. E venuta la cosa in
discettazione, Creso, contro alla opinione degli altri, disse che si
andasse a trovare lei; allegando che, s'egli la vincesse discosto a il
suo regno, che non le torrebbe il regno, perché ella arebbe
tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro ai suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e, non le dando spazio a rifarsi, torle lo
stato. Allegane ancora il consiglio che dette Annibale ad Antioco,
quando quel re disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostra come i
Romani non si potevano vincere se non in Italia, perché quivi
altrui si poteva valere delle armi e delle ricchezze e degli amici
loro; ma chi gli combatteva fuora d'Italia, e lasciava loro la Italia
libera, lasciava loro quella fonte che mai le manca vita a
somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai Romani si poteva
prima tôrre Roma che lo imperio, e prima la Italia che le altre
provincie. Allega ancora Agatocle che, non potendo sostenere la guerra
di casa, assaltò i Cartaginesi che gliene facevano, e gli
ridusse a domandare pace. Allega Scipione che, per levare la guerra di
Italia, assaltò la Africa.
Chi parla al contrario, dice che chi vuole fare capitare male uno
inimico, lo discosti da casa. Allegane gli Ateniesi, che, mentre che
feciono la guerra commoda alla casa loro, restarono superiori; e come
si discostarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la
libertà. Allega le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re
di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo
aspettò dentro a' confini del suo regno; ma, come ei se ne
discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita.
Onde è dato luogo alla favola che Anteo, sendo in terra,
ripigliava le forze da sua madre, che era la Terra, e che Ercole,
avvedutosi di questo, lo levò in alto, e discostollo dalla
terra. Allegane ancora i giudicii moderni. Ciascuno sa come Ferrando re
di Napoli fu ne' suoi tempi tenuto uno savissimo principe: e venendo la
fama, due anni davanti la sua morte, come il re di Francia Carlo VIII
voleva venire a assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni,
ammalò; e, venendo a morte, intra gli altri ricordi che
lasciò a Alfonso suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico
dentro a il regno; e per cosa del mondo non traesse forze fuora dello
stato suo, ma lo aspettasse dentro a' suoi confini tutto intero: il che
non fu osservato da quello; ma, mandato uno esercito in Romagna, sanza
combattere perdé quello e lo stato.
Le ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono:
che chi assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa
più confidente lo esercito: toglie, oltre a di questo, molte
commodità al nimico di potersi valere delle sue cose, non si
potendo valere di que' sudditi che siano saccheggiati; e, per avere il
nimico in casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarne da loro danari ed affaticargli: sicché ei
viene a seccare quella fonte, come disse Annibale, che fa che colui
può sostenere la guerra. Oltra di questo, i suoi soldati, per
trovarsi nel paese d'altrui, sono più necessitati a combattere;
e quella necessità fa virtù, come più volte
abbiamo detto. Dall'altra parte si dice: come, aspettando il nimico, si
aspetta con assai vantaggio, perché, sanza disagio alcuno, tu
puoi dare a quello molti disagi di vettovaglie, e d'ogni altra cosa che
abbia bisogno uno esercito: puoi meglio impedirgli i disegni suoi, per
la notizia del paese che tu hai più di lui: puoi con più
forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non potere
già tutte discostarle da casa: puoi, sendo rotto, rifarti
facilmente; sì perché del tuo esercito se ne
salverà assai, per avere i rifugi propinqui; sì
perché il supplimento non ha a venire discosto: tanto che tu
vieni ad arristiare tutte le forze, e non tutta la fortuna; e,
discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed
alcuni sono stati che, per indebolire meglio il suo nimico, lo lasciono
entrare parecchi giornate in su il paese loro, e pigliare assai terre;
acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo
esercito, e possinlo dipoi combattere più facilmente.
Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a
fare questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come i Romani, o
come hanno i Svizzeri, o io l'ho disarmato, come avevano i Cartaginesi,
o come l'hanno il re di Francia e gli Italiani. In questo caso, si
debbe tenere il nimico discosto a casa; perché, sendo la tua
virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta ti è
impedita la via di quello, tu sei spacciato; né cosa veruna te
lo impedisce quanto la guerra di casa. In esempli ci sono i
Cartaginesi; i quali, mentre che ebbono la casa loro libera, potettono
con le rendite fare guerra con i Romani; e quando l'avevano assaltata,
non potevano resistere ad Agatocle. I Fiorentini non avevano rimedio
alcuno con Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva loro la
guerra in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re
Ruberto di Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli medesimi Fiorentini
ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di
torgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque,
e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati,
come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili
a vincere quanto più ti appressi loro: perché questi
corpi possono unire più forze a resistere a uno impeto, che non
possono ad assaltare altrui. Né mi muove in questo caso
l'autorità d'Annibale, perché la passione e l'utile suo
gli faceva così dire a Antioco. Perché, se i Romani
avessono avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia
ch'egli ebbero in Italia da Annibale, sanza dubbio erano spacciati:
perché non si sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come
si valsono in Italia; non arebbono avuto, a rifarsi, quelle
commodità; né potevono con quelle forze resistere al
nimico, che poterono. Non si truova, per assaltare una provincia, che
loro mandassino mai fuora eserciti che passassino cinquantamila
persone; ma per difendere la casa ne missero in arme contro ai
Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di migliaia.
Né arebbono potuto poi rompere quegli in Lombardia, come gli
ruppono in Toscana; perché contro a tanto numero di inimici non
arebbono potuto condurre tante forze sì discosto, né
combattergli con quella commodità. I Cimbri ruppono uno esercito
romano nella Magna, né vi ebbono i Romani rimedio. Ma come gli
arrivarono in Italia, e che ei poterono mettere tutte le loro forze
insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori di
casa, dove ei non possono mandare più che un trenta o
quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove ei ne possono
raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque, di
nuovo, che quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinati alla
guerra, aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non
la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed
il paese inusitato alla guerra, se le discosti sempre da casa il
più che può. E così l'uno e l'altro, ciascuno nel
suo grado si difenderà meglio.
13
Che si viene di bassa a gran fortuna
più con la fraude; che con la
forza.
Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli
uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la forza e
sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è pervenuto
non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si
truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene che la
fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che
leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle
siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ovvero di bassa
fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii grandissimi. Mostra
Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello
ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe' fare a Ciro
contro al re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e
non con forza, gli fe' occupare il suo regno; e non conchiude altro,
per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose,
è necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di
questo, Ciassare, re de' Medii, suo zio materno, in più modi;
sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella
grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno,
costituto in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la
forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude:
come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di
Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati
fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora
necessitate a fare le republiche, infino che le siano diventate
potenti, e che basti la forza sola. E perché Roma tenne in ogni
parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a
grandezza, non mancò ancora di questo. Né poté
usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo,
discorso di sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo
nome se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo
intorno. Perché prima si valse dell'armi loro in domare i popoli
convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi, domatogli,
venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini
non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono
dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale
vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co' principi
longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non l'armi,
così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e
sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté
questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che
essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi
difesi, congiurarono contro a il nome romano. E mossono questa guerra i
Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte
delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro
ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani.
E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto questo
inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore
latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: «Nam si
etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus
etc.». Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non
essere mancati etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a
usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi
salire: la quale è meno vituperabile quanto è più
coperta, come fu questa de' Romani.
14
Ingannansi molte volte gli uomini,
credendo con la umiltà
vincere la superbia.
Vedesi molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma
nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che, o per
invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa
fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani e i
Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i Romani che i Latini
gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tale
guerra, disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli
irritò ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e
si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole
usate dal prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov'e'
dice: «Tentastis patientiam negando militem: quis dubitat
exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare
adversus Samnites, foederatos suos, audierunt, nec moverunt se ab urbe.
Unde haec illis tanta modestia, nisi conscientia virium, et nostrarum
et suarum?». Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo,
quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E
però, mai un principe debbe volere mancare del grado suo, e non
debbe mai lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare
onorevolmente, se non quando e' la può, o ei si crede che la
possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi
condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle
forze. Perché, se tu la lasci con la paura, lo fai per levarti
la guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perché
colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella, non
istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e
si accenderà più contro a di te, stimandoti meno; e,
dall'altra parte, in tuo favore troverrai i difensori più
freddi, parendo loro che tu sia o debole o vile: ma se tu, subito
scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancora che le
siano inferiori a lui, quello ti comincerà a stimare; stimanti
più gli altri principi allo intorno; e a tale viene voglia di
aiutarti, sendo in su l'armi, che, abbandonandoti, non ti aiuterebbe
mai. Questo s'intende quando tu abbia uno inimico; ma quando ne avessi
più, rendere delle cose che tu possedessi a alcuno di loro per
riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta la guerra, e
per ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito
prudente.
15
Gli stati deboli
sempre fiano ambigui nel risolversi:
e sempre le diliberazioni lente
sono nocive.
In questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di guerra
intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni consulta
è bene venire allo individuo di quello che si ha a diliberare, e
non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto della cosa. Il
che si vede manifesto nella consulta che feciono i Latini, quando ei
pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo i Romani
presentito questo cattivo umore che ne' popoli latini era entrato, per
certificarsi della cosa, e per veder se potevano sanza mettere mano
alle armi riguadagnarsi quegli popoli, fecero loro intendere, come e'
mandassono a Roma otto cittadini perché avevano a consultare con
loro. I Latini, inteso questo, ed avendo coscienza di molte cose fatte
contro alla voglia de' Romani, fecioro concilio per ordinare chi
dovesse ire a Roma e darli commissione di quello ch'egli avesse a dire.
E stando nel concilio in questa disputa, Annio loro pretore disse
queste parole: «Ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror, ut
cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile
erit, explicatis consiliis, accommodare rebus verba». Sono, sanza
dubbio, queste parole verissime e debbono essere da ogni principe e da
ogni republica gustate: perché, nella ambiguità e nella
incertitudine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare
le parole, ma, fermo una volta l'animo, e diliberato quello sia da
esequire, è facil cosa trovarvi le parole. Io ho notata questa
parte più volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale
ambiguità avere nociuto alle publiche azioni, con danno e con
vergogna della republica nostra. E sempre mal avverrà che ne'
partiti dubbi e dove bisogna animo a diliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbiano a essere consigliati e diliberati da
uomini deboli.
Non sono meno nocive ancora le diliberazioni lente e tarde, che le
ambigue; massime quelle che si hanno a diliberare in favore di alcuno
amico; perché con la lentezza loro non si aiuta persona, e
nuocesi a sé medesimo. Queste diliberazioni così fatte
procedono o da debolezza d'animo e di forze, o da malignità di
coloro che hanno a diliberare i quali, mossi dalla passione propria di
volere rovinare lo stato o adempiere qualche altro loro disiderio, non
lasciano seguire la diliberazione, ma la impediscono e la attraversono.
Perché i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare
voltarsi alla parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime
di quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno
in Siragusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani,
vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l'amicizia romana o
la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava
ambigua, né se ne prendeva alcuno partito: insino a tanto che
Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione piena di
prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi teneva la
opinione di aderirsi ai Romani, né quelli che volevano seguire
la parte cartaginese; ma era bene da detestare quella ambiguità
e tardità di pigliare il partito, perché vedeva al tutto
in tale ambiguità la rovina della republica; ma preso che si
fussi il partito, qualunque si fusse, si poteva sperare qualche bene.
Né potrebbe mostrare più Tito Livio, che si faccia in
questa parte, il danno che si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo
ancora in questo caso de' Latini: poiché, essendo i Lavinii
ricerchi da loro d'aiuto contro ai Romani, differirono tanto a
diliberarlo, che, quando eglino erano usciti appunto fuora della porta
con le genti per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere
rotti. Donde Milionio loro pretore disse: - Questo poco della via ci
costerà assai col Popolo romano -. Perché, se si
diliberavano prima, o di aiutare o di non aiutare i Latini, non li
aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto in
tempo, potevono con la aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma
differendo, venivano a perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se
i Fiorentini avessono notato questo testo, non arebbono avuto co'
Franciosi né tanti danni né tante noie quante ebbono
nella passata che il re Luigi di Francia XII fece in Italia contro a
Lodovico duca di Milano. Perché, trattando il re tale passata,
ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori, che erano
appresso al re, accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il
re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in
protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu
differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose
di Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e
volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione accettata;
come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati e non
voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di
Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come poi altra volta
per simile causa le intervenne. E tanto più fu dannabile quel
partito, perché non si servì ancora a il duca Lodovico;
il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti più segni
d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia di
sopra in uno altro capitolo discorso, nondimeno, avendone di nuovo
occasione per uno nuovo accidente, ho voluto replicarne parendomi,
massime, materia che debba essere dalle republiche, simili alla nostra,
notata.
16
Quanto i soldati de' nostri tempi
si disformino dagli antichi ordini.
La più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con
alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli
latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perché ogni
ragione vuole che, così come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani, quando
non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio;
perché in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di
virtù, d'ostinazione e di numero: solo vi fa differenza, che i
capi dello esercito romano furono più virtuosi che quelli dello
esercito latino. Vedesi ancora come nel maneggio di questa giornata
nacquono due accidenti, non prima nati, e che dipoi hanno radi esempli:
che, di due Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed
ubbidienti a' comandamenti loro, e diliberati al combattere l'uno
ammazzò sé stesso, e l'altro il figliuolo. La
parità, che Tito Livio dice essere in questi eserciti, era che,
per avere militato gran tempo insieme, erano pari di lingua, d'ordine e
d'armi: perché nello ordinare la zuffa tenevano uno modo
medesimo; e gli ordini e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi.
Era dunque necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che
nascesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più
ostinati gli animi dell'uno che dell'altro: nella quale ostinazione
consiste, come altre volte si è detto, la vittoria;
perché, mentre che la dura ne' petti di quelli che combattono,
mai non dànno volta gli eserciti. E perché la durasse
più ne' petti de' Romani che de' Latini, parte la sorte, parte
la virtù de' Consoli fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare
il figliuolo, e Decio sé stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare
questa parità di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani
nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che io
vi giudico notabile, e quello che, per essere negletto da tutti i
capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe, di
molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie
come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali
toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima
astati, la seconda principi, la terza triari: e ciascuna di queste
aveva i suoi cavagli. Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli astati
innanzi; nel secondo luogo, per ritto, dietro alle spalle di quelli,
ponevano i principi; nel terzo, pure nel medesimo filo, collocavano i
triari. I cavagli di tutti questi ordini gli ponevano a destra ed a
sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali cavagli, dalla
forma loro, e dal luogo, si chiamavano «alae» perché
parevano come due alie di quel corpo. Ordinavono la prima stiera, degli
astati, che era nella fronte, serrata in modo insieme, che la potesse
spignere e sostenere il nimico. La seconda stiera, de' principi,
perché non era la prima a combattere, ma bene le conveniva
soccorrere alla prima quando fussi battuta o urtata, non la facevano
stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la
potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi, la prima, qualunque
volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza stiera,
de' triari, aveva ancora gli ordini più radi che la seconda, per
potere ricevere in sé, bisognando, le due prime stiere, de'
principi e degli astati. Collocate, dunque, queste stiere in questa
forma, appiccavano la zuffa: e, se gli astati erano sforzati o vinti,
si ritiravano nella radità degli ordini de' principi; e, tutti
uniti insieme, fatto di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa: se
questi ancora erano ributtati, sforzati si ritiravano tutti nella
rarità degli ordini de' triari; e tutt'a tre le stiere,
diventate uno corpo, rinnovavano la zuffa: dove essendo superati, per
non avere più da rifarsi, perdevono la giornata. E perché
ogni volta che questa ultima stiera de' triari si adoperava, lo
esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: «Res redacta
est ad triarios», che, a uso toscano, vuole dire:«Noi
abbiamo messa l'ultima posta». I capitani de' nostri tempi, come
egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini, e della antica
disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata
questa parte, la quale non è di poca importanza: perché
chi si ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere
tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per
iscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi non
sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere; perché ogni disordine,
ogni mezzana virtù gli può tôrre la vittoria.
Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte,
è lo avere perduto il modo di ricevere l'una stiera nell'altra.
Il che nasce perché al presente s'ordinano le giornate con uno
di questi due disordini: o ei mettono le loro stiere a spalle l'una
dell'altra, e fanno la loro battaglia, larga per traverso, e sottile
per diritto; il che la fa più debole, per avere poco dal petto
alle stiene. E quando pure, per farla più forte, ei riducano le
stiere per il verso de' Romani, se la prima fronte è rotta, non
avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano insieme
tutte, e rompano sé medesime: perché, se quella dinanzi
è spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuole fare
innanzi, ella è impedita dalla prima: donde che, urtando la
prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta confusione, che
spesso un minimo accidente rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli
e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove morì monsignor de Fois
capitano delle genti di Francia (la quale fu, secondo i nostri tempi,
assai bene combattuta giornata), s'ordinarono con l'uno de'
soprascritti modi; cioè che l'uno e l'altro esercito venne con
tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo che non venivano avere
né l'uno né l'altro se non una fronte, ed erano assai
più per il traverso che per il diritto. E questo avviene loro
sempre, dove egli hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna:
perché, conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi,
mettendosi per un filo, lo fuggono, quando ei possono, col fare la
fronte larga, come è detto; ma quando il paese gli ristrigne, si
stanno nel disordine soprascritto, sanza pensare al rimedio. Con questo
medesimo disordine cavalcano per il paese inimico, o se ei predano, o
se fanno altro maneggio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa,
ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne' tempi della
guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua
ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque
tale rovina d'altronde che dalla cavalleria amica; la quale, sendo
davanti e ributtata da' nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e
quella ruppe: donde tutto il restante delle genti dierono volta: e
messer Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha
affermato alla presenza mia molte volte, non essere mai stato rotto se
non dalla cavalleria degli amici. I Svizzeri, che sono i maestri delle
moderne guerre, quando ei militano con i Franciosi, sopra tutte le cose
hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse
ributtata, non gli urti. E benché queste cose paiano facili ad
intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si è trovato
ancora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi ordini
imiti, e i moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro
tripartito lo esercito, chiamando l'una parte antiguardo, l'altra
battaglia, e l'altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a
comandarli nelli alloggiamenti, ma nello adoperargli, rade volte
è, come di sopra è detto, che a tutti questi corpi non
faccino correre una medesima fortuna.
E perché molti, per scusarne la ignoranza loro, allegano che la
violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si usino
molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente capitolo
questa materia, e vo' esaminare se le artiglierie impediscano che non
si possa usare l'antica virtù.
17
Quanto si debbino stimare dagli
eserciti
ne' presenti tempi le artiglierie;
e se quella opinione,
che se ne ha in universale, è
vera.
Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali
(chiamate ne' nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e, dagli
Italiani, fatti d'arme) furono fatte da' Romani in diversi tempi, mi
è venuto in considerazione la opinione universale di molti, che
vuole che, se in quegli tempi fussono state le artiglierie, non sarebbe
stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le
provincie, farsi tributari i popoli, come ei fecero; né arebbono
in alcuno modo fatto sì gagliardi acquisti. Dicono ancora, che,
mediante questi instrumenti de' fuochi, gli uomini non possono usare
né mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente.
E soggiungano una terza cosa: che si viene con più
difficultà alle giornate che non si veniva allora, né vi
si può tenere dentro quegli ordini di quegli tempi;
talché la guerra si ridurrà col tempo in su le
artiglierie. E giudicando non fuora di proposito disputare se tali
opinioni sono vere, e quanto le artiglierie abbino accresciuto o
diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai
buoni capitani di operare virtuosamente, comincerò a parlare
quanto alla prima loro opinione: che gli eserciti antichi romani non
arebbano fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie fussono
state. Sopra che, rispondendo, dico come e' si fa guerra o per
difendersi o per offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di
questi due modi di guerra le faccino più utile o più
danno. E benché sia che dire da ogni parte, nondimeno io credo
che sanza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a
chi offende. La ragione che io ne dico è, che quel che si
difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su i
campi dentro a uno steccato. S'egli è dentro a una terra, o
questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende è
al tutto perduto, perché l'impeto delle artiglierie è
tale che non truova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi
giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha buoni spazi da
ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né può
sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per la rottura
del muro, né a questo gli giova artiglieria che avessi:
perché questa è una massima, che dove gli uomini in
frotta e con impeto possono andare, le artiglierie non gli sostengono.
Però i furori oltramontani nella difesa delle terre non sono
sostenuti: son bene sostenuti gli assalti italiani, i quali, non in
frotta ma spicciolati, si conducano alle battaglie, le quali loro, per
nome molto proprio, chiamano scaramucce. E questi che vanno con questo
disordine e questa freddezza a una rottura d'un muro dove siano
artiglierie, vanno a una manifesta morte, e contro a loro le
artiglierie vagliano: ma quegli che in frotta condensati, e che l'uno
spinge l'altro, vengono a una rottura, se non sono sostenuti o da fossi
o da ripari, entrono in ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono;
e, se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che gl'impedischino
la vittoria.
Questo, essere vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte
dagli oltramontani in Italia, e massime in quella di Brescia:
perché, sendosi quella terra ribellata da' Franciosi, e
tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza, avevano i Viniziani,
per sostenere l'impeto che da quella potesse venire nella terra, munita
tutta la strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla città
scendeva, e postene a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo
opportuno. Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi,
quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di
quelle, occupò la città, né per quelle si
sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno.
Talché, chi si difende in una terra piccola, come è
detto, e truovisi le mura in terra, e non abbia spazio da ritirarsi con
i ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le artiglierie, si perde
subito. Se tu difendi una terra grande, e che tu abbia commodità
di ritirarti, sono nondimanco sanza comparazione più utili le
artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima,
perché, a volere che una artiglieria nuoca a quegli che sono di
fuora, tu se' necessitato levarti con essa dal piano della terra;
perché, stando in sul piano, ogni poco d'argine e di riparo che
il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che,
avendoti a alzare, e tirarti in sul corridoio delle mura, o in
qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due
difficultà: la prima, che tu non puoi condurvi artiglierie della
grossezza e della potenza che può trarre colui di fuora, non si
potendo ne' piccoli spazii maneggiare le cose grandi: l'altra è,
quando bene tu ve le potessi condurre, tu non puoi fare quegli ripari
fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria, che possono fare quegli
di fuori, essendo in sul terreno, ed avendo quelle commodità e
quello spazio che loro medesimi vogliono: talmenteché, gli
è impossibile, a chi difende una terra, tenere le artiglierie
ne' luoghi alti, quando quegli che sono di fuori abbino assai
artiglierie e potente; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi
bassi, ella diventa in buona parte inutile, come è detto.
Talché la difesa della città si ha a ridurre a difenderla
con le braccia, come anticamente si faceva, e con l'artiglieria minuta:
di che se si trae un poco di utilità, rispetto a questa
artiglieria minuta, se ne cava incommodità che contrappesa alla
commodità dell'artiglieria; perché, rispetto a quella, si
riducano le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne' fossi:
talché, come si viene alla battaglia di mano, o per essere
battute le mura o per essere ripieni i fossi, ha, chi è dentro,
molti più disavvantaggi che non aveva allora. E però,
come di sopra si disse, giovano questi instrumenti molto più a
chi campeggia le terre, che a chi è campeggiato. Quanto alla
terza cosa, di ridursi in un campo dentro a uno steccato, per non fare
giornata se non a tua comodità o vantaggio, dico che in questa
parte tu non hai più rimedio, ordinariamente, a difenderti di
non combattere, che si avessono gli antichi; e qualche volta, per conto
delle artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Perché, se il
nimico ti giugne addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese, come
può facilmente intervenire, e truovisi più alto di te; o
che nello arrivare suo tu non abbia ancora fatti i tuoi argini, e
copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun rimedio,
ti disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla
zuffa. Il che intervenne agli Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i
quali essendosi muniti tra 'l fiume del Ronco ed uno argine, per non lo
avere tirato tanto alto che bastasse, e per avere i Franciosi un poco
il vantaggio del terreno, furono costretti dalle artiglierie uscire
delle fortezze loro, e venire alla zuffa. Ma dato, come il più
delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il campo
fosse più eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini
fussono buoni e sicuri, talché, mediante il sito e l'altre tue
preparazioni il nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà in
questo caso a quegli modi che anticamente si veniva, quando uno era con
il suo esercito in lato da non potere essere offeso: i quali sono,
correre il paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti
le vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da qualche necessità
a disalloggiare, e venire a giornata; dove le artiglierie, come di
sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali
ragioni guerre feciono i Romani, e veggendo come ei feciono quasi tutte
le loro guerre per offendere altrui e non per difendere loro, si
vedrà, quando siano vere le cose dette di sopra, come quelli
arebbono avuto più vantaggio, e più presto arebbono fatto
i loro acquisti, se le fossono state in quelli tempi.
Quanto alla seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la
virtù loro, come ei potevano anticamente, mediante
l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove gli uomini
spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più pericoli che
allora, quando avessono a scalare una terra, o fare simili assalti,
dove gli uomini non ristretti insieme ma di per sé l'uno
dall'altro avessono a comparire. È vero ancora, che gli capitani
e capi degli eserciti stanno sottoposti più a il pericolo della
morte che allora, potendo essere aggiunti con le artiglierie in ogni
luogo; né giova loro lo essere nelle ultime squadre, e muniti di
uomini fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi dua
pericoli fanno rade volte danni istraordinari: perché le terre
munite bene non si scalano, né si va con assalti deboli ad
assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa a una ossidione,
come anticamente si faceva. Ed in quelle che pure per assalto si
espugnano, non sono molto maggiori i pericoli che allora: perché
non mancavano anche in quel tempo, a chi difendeva le terre, cose da
trarre; le quali, se non erano così furiose, facevano, quanto
allo ammazzare gli uomini, il simile effetto. Quanto alla morte de'
capitani e condottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono state
le guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno esempli che non era in
dieci anni di tempo appresso agli antichi. Perché, dal conte
Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Viniziani,
pochi anni sono, assaltarono quello stato, ed il Duca di Nemors, che
morì alla Cirignuola, in fuori, non è occorso che
d'artiglierie ne sia morto alcuno; perché monsignore di Fois a
Ravenna morì di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini
non dimostrano particularmente la loro virtù, nasce, non dalle
artiglierie, ma dai cattivi ordini e dalla debolezza degli eserciti; i
quali, mancando di virtù nel tutto, non la possono mostrare
nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle
mani, e che la guerra si condurrà tutta in su l'artiglierie,
dico questa opinione essere al tutto falsa; e così fia sempre
tenuta da coloro che secondo l'antica virtù vorranno adoperare
gli eserciti loro. Perché, chi vuole fare uno esercito buono,
gli conviene, con esercizi o fitti o veri, assuefare gli uomini sua ad
accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della spada ed a
pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in su le fanterie
che in su' cavagli, per le ragioni che di sotto si diranno. E quando si
fondi in su i fanti ed in su i modi predetti, diventono al tutto le
artiglierie inutili; perché con più facilità le
fanterie, nello accostarsi al nimico, possono fuggire il colpo delle
artiglierie, che non potevano anticamente fuggire l'impeto degli
elefanti, de' carri falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le
fanterie romane riscontrarono; contro ai quali sempre trovarono il
rimedio: e tanto più facilmente lo arebbono trovato contro a
queste, quanto egli è più breve il tempo nel quale le
artiglierie ti possano nuocere, che non era quello nel quale potevano
nuocere gli elefanti ed i carri. Perché quegli nel mezzo della
zuffa ti disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa, t'impediscano:
il quale impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con andare
coperte dalla natura del sito, o con abbassarsi in su la terra quando
le tirano. Il che anche, per isperienza, si è visto non essere
necessario, massime per difendersi dalle artiglierie grosse; le quali
non si possono in modo bilanciare, o che, se le vanno alto, le non ti
trovino, o che, se le vanno basso, le non ti arrivino. Venuti poi gli
eserciti alle mani, questo è chiaro più che la luce, che
né le grosse né le piccole ti possono offendere:
perché, se quello che ha l'artiglierie è davanti, diventa
tuo prigione; s'egli è dietro, egli offende prima l'amico che
te; a spalle ancora non ti può ferire in modo che tu non lo
possa ire a trovare, e ne viene a seguitare lo effetto detto. Né
questo ha molta disputa; perché se ne è visto l'esemplo
de' Svizzeri, i quali a Novara nel 1513, sanza artiglierie e sanza
cavagli, andarono a trovare lo esercito francioso, munito
d'artiglierie, dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere
alcuno impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose
dette di sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a
volere che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le
mancherà una di queste guardie, ella è prigione, o la
diventa inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con gli
uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali. Per fianco
le non si possono adoperare, se non in quel modo che adoperavano gli
antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano fuori delle
squadre, perché ei combattessono fuori degli ordini; ed ogni
volta che o da cavalleria o da altri erano spinti, il rifugio loro era
dietro alle legioni. Chi altrimenti ne fa conto, non la intende bene, e
fidasi sopra una cosa che facilmente lo può ingannare. E se il
Turco, mediante l'artiglieria, contro al Sofi ed il Soldano ha avuto
vittoria, è nato non per altra virtù di quella che per lo
spavento che lo inusitato romore messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria
essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l'antica
virtù; ma, sanza quella, contro a uno esercito virtuoso è
inutilissima.
18
Come per l'autorità de' Romani,
e per lo esemplo della antica milizia,
si debba stimare più le
fanterie
che i cavagli.
E' si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare
chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni estimassono
più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella fondassino
tutti i disegni delle forze loro: come si vede per molti esempli, ed
infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini appresso al lago
Regillo; dove essendo già inclinato lo esercito romano, per
soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli uomini a cavallo, a piede,
e per quella via, rinnovata la zuffa, ebbono la vittoria. Dove si vede
manifestamente, i Romani avere più confidato in loro sendo a
piede, che mantenendoli a cavallo. Questo medesimo termine usarono in
molte altre zuffe, e sempre lo trovarono ottimo rimedio alli loro
pericoli.
Né si opponga a questo la opinione d'Annibale, il quale,
veggendo in la giornata di Canne che i Consoli avevano fatto discendere
a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito,
disse: «Quam mallem vinctos mihi traderent equites!»,
cioè: - Io arei più caro che me gli dessino legati -. La
quale opinione, ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo
eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire dietro alla
autorità, si debbe più credere a una Republica romana, e
a tanti capitani eccellentissimi che furono in quella, che a uno solo
Annibale. Ancoraché, sanza le autorità, ce ne sia ragioni
manifeste: perché l'uomo a piede può andare in di molti
luoghi, dove non può andare il cavallo; puossi insegnarli
servare l'ordine, e, turbato che fussi, come e' lo abbia a riassumere:
a' cavagli è difficile fare servare l'ordine, ed impossibile,
turbati che sono, riordinargli. Oltre a questo, si truova, come negli
uomini, de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno
assai: e molte volte interviene che un cavallo animoso è
cavalcato da un uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in
qualunque modo che segua questa disparità, ne nasce
inutilità e disordine. Possono le fanterie, ordinate, facilmente
rompere i cavagli, e difficilmente essere rotte da quegli. La quale
opinione è corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni,
dalla autorità di coloro che danno delle cose civili regola:
dove ei mostrano come in prima le guerre si cominciarono a fare con i
cavagli, perché non era ancora l'ordine delle fanterie; ma come
queste si ordinarono, si conobbe subito quanto loro erano più
utili che quelli. Non è per questo però che i cavagli non
siano necessarii negli eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e
predare i paesi, per seguitare i nimici quando ei sono in fuga, e per
essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli avversari: ma
il fondamento e il nervo dello esercito, e quello che si debbe
più stimare, debbano essere le fanterie.
Ed infra i peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia serva
de' forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto
di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a
cavallo. Il quale disordine è nato per la malignità de'
capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato. Perché,
essendosi ridotta la milizia italiana da' venticinque anni indietro, in
uomini che non avevano stato, ma erano come capitani di ventura,
pensarono subito come potessero mantenersi la riputazione, stando
armati loro e disarmati i principi. E perché uno numero grosso
di fanti non poteva loro essere continovamente pagato, e non avendo
sudditi da potere valersene, ed uno piccol numero non dava loro
riputazione, si volsono a tenere cavagli: perché dugento o
trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli uomini che tenevono
stato non potesse essere adempiuto. E perché questo seguisse
più facilmente, e per mantenersi più in riputazione,
levarono tutta l'affezione e la riputazione da' fanti, e ridussonla in
quelli loro cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine, che in
qualunque grossissimo esercito era una minima parte di fanteria. La
quale usanza fece in modo debole, insieme con molti altri disordini che
si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che questa
provincia è stata facilmente calpesta da tutti gli oltramontani.
Mostrasi più apertamente questo errore, di stimare più i
cavagli che le fanterie, per uno altro esemplo romano. Erano i Romani a
campo a Sora, ed essendo uscito fuori della terra una turma di cavagli
per assaltare il campo, se gli fece allo incontro il Maestro de'
cavagli romano con la sua cavalleria; e datosi di petto, la sorte dette
che nel primo scontro i capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e
restati gli altri sanza governo, e durando nondimeno la zuffa, i
Romani, per superare più facilmente il nimico, scesono a piede,
e constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere, a fare il
simile: e, con tutto questo, i Romani ne riportarono la vittoria. Non
può essere questo esemplo maggiore in dimostrare quanto sia
più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perché,
se nelle altre fazioni i Consoli facevano discendere i cavalieri
romani, era per soccorrere alle fanterie che pativano, e che avevano
bisogno di aiuto; ma in questo luogo e' discesono, non per soccorrere
alle fanterie né per combattere con uomini a piè de'
nimici, ma combattendo a cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo
superargli a cavallo, potere, scendendo, più facilmente
vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata non
possa sanza grandissima difficultà essere superata se non da
un'altra fanteria. Crasso e Marc'Antonio romani corsono per il dominio
de' Parti molte giornate con pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed
allo incontro avevano innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi rimase,
con parte dello esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si
salvò. Nondimanco in queste azioni romane si vide quanto le
fanterie prevalevano ai cavagli: perché, essendo in uno paese
largo, dove i monti sono radi, i fiumi radissimi, le marine longinque,
e discosto da ogni commodità, nondimanco Marc'Antonio, al
giudicio de' Parti medesimi, virtuosissimamente si salvò;
né mai ebbeno ardire tutta la cavalleria partica tentare gli
ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene
le sue azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che
sforzato: né mai, in tutti i suoi disordini, i Parti ardirono
d'urtarlo; anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli le
vettovaglie, e promettendogli e non gli osservando, lo condussono a una
estrema miseria.
Io crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la
virtù delle fanterie è più potente che quella de'
cavalli se non ci fossono assai moderni esempli che ne rendano
testimonianza pienissima. E' si è veduto novemila Svizzeri a
Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare diecimila cavagli
ed altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli
potevano offendere: i fanti, per essere gente in buona parte guascona e
male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi ventiseimila Svizzeri
andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che aveva seco
ventimila cavagli, quarantamila fanti, e cento carra d'artiglierie; e
se non vinsono la giornata come a Novara, ei la combatterono dua giorni
virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la metà di loro si
salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua
sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se il disegno non gli
riuscì, non fu però che la virtù della sua
fanteria non fosse tanta, ch' e' non confidasse tanto in lei che
credesse superare quella difficultà. Replico, pertanto, che, a
volere superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro
fanti meglio ordinati di quegli: altrimenti, si va a una perdita
manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in
Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo
capitano allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille cavagli
e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non sappiendo l'ordine del
combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi cavagli,
presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo
perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo
valentissimo uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi
partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e, venuto loro
all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d'armi, e,
fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò ad investire i
Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, sendo le
genti d'armi del Carmignuola a piè e bene armate, poterono
facilmente entrare intra gli ordini de' Svizzeri, sanza patire alcuna
lesione ed entrati tra quegli poterono facilmente offenderli:
talché di tutto il numero di quegli, ne rimase quella parte
viva, che per umanità del Carmignuola fu conservata.
Io credo che molti conoschino questa differenzia di virtù che
è intra l'uno e l'altro di questi ordini: ma è tanta la
infelicità di questi tempi, che né gli esempli antichi
né i moderni né la confessione dello errore è
sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e pensino
che, a volere rendere riputazione alla milizia d'una provincia o d'uno
stato, sia necessario risuscitare questi ordini, tenergli appresso,
dare loro riputazione, dare loro vita, acciocché a lui e vita e
riputazione rendino. E come ei deviano da questi modi, così
deviano dagli altri modi, detti di sopra: onde ne nasce che gli
acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno stato; come di sotto si
dirà.
19
Che gli acquisti nelle republiche
non bene ordinate,
e che secondo la romana virtù
non procedano, sono a ruina,
non ad esaltazione di esse.
Queste contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali
esempli che da questi nostri corrotti secoli sono stati introdotti,
fanno che gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi. Quando si
sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta anni in dietro che
diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila cavagli ed
altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere ma vincergli,
come si vide per lo esemplo da noi più volte allegato, a Novara?
E benché le istorie ne siano piene, tamen non ci arebbero
prestato fede; e se ci avessero prestato fede, arebbero detto che in
questi tempi s'arma meglio, e che una squadra di uomini d'arme sarebbe
atta ad urtare uno scoglio, non che una fanteria: e così con
queste false scuse corrompevano il giudizio loro; né arebbero
considerato che Lucullo con pochi fanti ruppe cento cinquantamila
cavalli di Tigrane, e che fra quelli cavalieri era una sorte di
cavalleria simile al tutto agli uomini d'arme nostri: e così,
come questa fallacia è stata scoperta dallo esemplo delle genti
oltramontane. E come e' si vede, per quello, essere vero, quanto alla
fanteria, quello che nelle istorie si narra, così doverrebbero
credere essere veri e utili tutti gli altri ordini antichi. E quando
questo fusse creduto, le republiche ed i principi errerebbero meno;
sariano più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro
addosso; non spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani
uno vivere civile, lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbono che lo
accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare capitale
delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non
con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il privato, mantenere
con sommo studio gli esercizi militari, fusse la vera via a fare grande
una republica, e ad acquistare imperio. E quando questo modo dello
ampliare non gli piacessi, penserebbe che gli acquisti per ogni altra
via sono la rovina delle republiche, e porrebbe freno a ogni ambizione;
regolando bene la sua città dentro con le leggi e co' costumi,
proibendole lo acquistare, e solo pensando a difendersi, e le difese
tenere ordinate bene: come fanno le republiche della Magna, le quali in
questi modi vivano e sono vivute libere un tempo.
Nondimeno, come altra volta dissi quando discorsi la differenza che
era, da ordinarsi per acquistare e ordinarsi per mantenere; è
impossibile che ad una republica riesca lo stare quieta, e godersi la
sua libertà e gli pochi confini: perché, se lei non
molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere
molestata le nascerà la voglia e la necessità dello
acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo troverrebbe in
casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi. E se le
republiche della Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno
potuto durare un tempo, nasce da certe condizioni che sono in quel
paese, le quali non sono altrove, sanza le quali non potrebbero tenere
simile modo di vivere.
Era quella parte della Magna di che io parlo, sottoposta allo Imperio
romano come la Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in declinazione e
ridottosi il titolo di tale Imperio in quella provincia, cominciarono
quelle città più potenti, secondo la viltà o
necessità degl'imperadori, a farsi libere, ricomperandosi dallo
Imperio, con riservargli un piccol censo annuario; tanto che, a poco a
poco, tutte quelle città che erano immediate dello imperadore, e
non erano suggette d'alcuno principe, si sono in simil modo
ricomperate. Occorse, in questi medesimi tempi che queste città
si ricomperavano, che certe comunità sottoposte al duca di
Austria si ribellarono da lui; tra le quali fu Filiborg, e i Svizzeri,
e simili; le quali prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco
tanto augumento, che, non che e' siano tornati sotto il giogo di
Austria, sono in timore a tutti i loro vicini: e questi sono quegli che
si chiamano i Svizzeri. È, adunque, questa provincia compartita
in Svizzeri, republiche che chiamano terre franche, principi, ed
imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di vivere,
non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le guerre,
è quel segno dello imperadore; il quale, avvenga che non abbi
forze, nondimeno ha infra loro tanta riputazione ch'egli è un
loro conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come
mezzano, spegne subito ogni scandolo. E le maggiori e le più
lunghe guerre vi siano state, sono quelle che sono seguite intra i
Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché da molti anni in qua lo
imperadore ed il duca d'Austria sia una medesima cosa, non pertanto non
ha mai possuto superare l'audacia de' Svizzeri; dove non è stato
mai modo d'accordo, se non per forza. Né il resto della Magna
gli ha porti molti aiuti; sì perché le comunità
non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì
perché quelli principi, parte non possono, per essere poveri,
parte non vogliono, per avere invidia alla potenza sua. Possono vivere,
adunque, quelle comunità contente del piccolo loro dominio, per
non avere cagione, rispetto all'autorità imperiale, di
disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro alle mura loro, per
avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le occasioni di occuparle,
qualunque volta le discordassono. Ché, se quella provincia fusse
condizionata altrimenti, converrebbe loro cercare di ampliare e rompere
quella loro quiete. E perché altrove non sono tali condizioni,
non si può prendere questo modo di vivere; e bisogna o ampliare
per via di leghe, o ampliare come i Romani. E chi si governa
altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina:
perché in mille modi e per molte cagioni gli acquisti sono
dannosi; perché gli sta molto bene, insieme acquistare imperio e
non forze; e chi acquista imperio e non forze insieme, conviene che
rovini. Non può acquistare forze chi impoverisce nelle guerre,
ancora che sia vittorioso, che ei mette più che non trae degli
acquisti: come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i quali sono
stati molto più deboli, quando l'uno aveva la Lombardia e
l'altro la Toscana, che non erano quando l'uno era contento del mare, e
l'altro di sei miglia di confini.
Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non
avere saputo pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo,
quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i Romani,
sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro medesimi lo seppono
trovare. Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta non
mediocre danno ad ogni bene ordinata republica, quando e' si acquista
una città o una provincia piena di delizie, dove si può
pigliare di quegli costumi per la conversazione che si ha con quegli:
come intervenne a Roma, prima, nello acquisto di Capova, e dipoi, a
Annibale. E se Capova fusse stata più longinqua dalla
città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il rimedio
propinquo, o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta, era, sanza
dubbio, quello acquisto la rovina della romana Repubblica. E Tito Livio
fa fede di questo con queste parole: «Iam tunc minime salubris
militari disciplinae Capua, instrumentum omnium voluptatum, delinitos
militum animos avertit a memoria patriae». E veramente, simili
città o provincie si vendicano contro al vincitore sanza zuffa e
sanza sangue; perché, riempiendogli de' suoi tristi costumi, gli
espongono a essere vinti da qualunque gli assalti. E Iuvenale non
potrebbe meglio, nelle sue satire, avere considerata questa parte,
dicendo che ne' petti romani per gli acquisti delle terre peregrine
erano entrati i costumi peregrini; ed in cambio di parsimonia e d'altre
eccellentissime virtù, «gula et luxuria incubuit,
victumque ulciscitur orbem». Se, adunque, lo acquistare fu per
essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli con tanta prudenzia e
tanta virtù procedevono, che sarà adunque a quegli che
discosto dai modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori che
fanno, di che se n'è di sopra discorso assai, si vagliano de'
soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro spesso quelli
danni di che nel seguente capitolo si farà menzione.
20
Quale pericolo porti quel principe
o quella republica che si vale
della milizia ausiliare o mercenaria.
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia
inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria,
io mi stenderei in questo discorso assai più che non
farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò, in
questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da
passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari,
sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono quegli
che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in
tuo aiuto. E venendo al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in
due diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con gli eserciti
loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per questo
liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e
volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che i Capovani, spogliati
di presidio, non diventassono di nuovo preda de' Sanniti; lasciarono
due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le quali legioni
marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in quello; tanto che,
dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere
l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso; parendo loro che gli abitatori non fussono degni di
possedere quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa
presentita, fu da' Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo
delle congiure, largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo,
come di tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari sono i
più dannosi: perché in essi quel principe o quella
repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna,
ma vi ha solo l'autorità colui che gli manda. Perché gli
soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati da uno principe,
come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati da
lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi
tali soldati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano
così colui che gli ha condotti, come colui contro a chi e' sono
condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli manda,
o per ambizione loro. E benché la intenzione de' Romani non
fusse di rompere l'accordo e le convenzioni avevano fatto co' Capovani;
non per tanto la facilità che pareva a quegli soldati di
opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a pensare di
tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare
assai esempli, ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali
fu tolto la vita e la terra da una legione che i Romani vi avevano
messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica pigliare
prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per
sua difesa genti ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare sopra
quelle; perché ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura,
ch'egli arà col nimico gli sarà più leggieri che
tale partito. E se si leggeranno bene le cose passate, e
discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che ne abbi
avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati.
Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la
maggiore occasione di occupare una città o una provincia, che
essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella.
Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente per
difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca
d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che
gliene acquista, gli può facilmente essere tolto. Ma l'ambizione
dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente voglia,
non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene.
Né lo muovono gli antichi esempli, così in questo come
nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli,
vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i
vicini, e di essere più alieno da occupargli, tanto più
si gettono in grembo: come di sotto, per lo esemplo de' Capovani, si
dirà.
21
Il primo Pretore ch'e' Romani
mandarono in alcuno luogo, fu a
Capova,
dopo quattrocento anni che
cominciarono
a fare guerra.
Quanto i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare,
fossero differenti da quegli che ne' presenti tempi ampliano la
giurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e come e'
lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi loro,
eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si arrendevano
loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio per il Popolo
romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le
mantenevano nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi
essere stati osservati infino che gli uscirono d'Italia, e che
cominciarono a indurre i regni e gli stati in provincie.
Di questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che
fussi mandato da loro in alcun luogo, fu a Capova: il quale vi
mandarono, non per loro ambizione, ma perché e' ne furono
ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro discordia,
giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo gli
Anziati mossi, e constretti dalla medesima necessità,
domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio dice, in su questo
accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare «quod jam non
solum arma, sed iura romana pollebant». Vedesi, pertanto, quanto
questo modo facilitò lo augumento romano. Perché quelle
città, massime che sono use a vivere libere, o consuete
governarsi per sua provinciali, con altra quiete stanno contente sotto
uno dominio che non veggono, ancora ch'egli avesse in sé qualche
gravezza, che sotto quello che veggendo ogni giorno, pare loro che ogni
giorno sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita
uno altro bene per il principe: che, non avendo i suoi ministri in mano
i giudicii ed i magistrati che civilmente o criminalmente rendono
ragione in quelle cittadi, non può nascere mai sentenza con
carico o infamia del principe: e vengono per questa via a mancare molte
cagioni di calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il vero,
oltre agli antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce n'è
uno esemplo fresco in Italia. Perché, come ciascuno sa, sendo
Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre quel re,
eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno governatore francioso
che in suo nome la governi. Al presente solo, non per elezione del re,
ma perché così ha ordinato la necessità, ha
lasciato governarsi quella città per sé medesima, e da
uno governatore genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di
questi due modi rechi più sicurtà al re, dello imperio
d'essa, e più contentezza a quegli popolari, sanza dubbio
approverebbe questo ultimo modo. Oltre a di questo, gli uomini tanto
più ti si gettono in grembo, quanto più tu pari alieno
dallo occupargli; e tanto meno ti temano per conto della loro
libertà, quanto più se' umano e dimestico con loro.
Questa dimestichezza e liberalità fece i Capovani correre a
chiedere il Pretore a' Romani: ché se a' Romani si fusse
dimostro una minima voglia di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e
si sarebbero discostati da loro.
Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in
Firenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la
città di Pistoia venne volontariamente sotto lo imperio
fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra i
Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità di
animo non è nata, perché i Pistolesi non prezzino la loro
libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto gli altri;
ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come frategli, e
con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i Pistolesi sono corsi
volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni
forza per non vi pervenire. E sanza dubbio, se i Fiorentini o per vie
di leghe o di aiuti avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi
vicini, a questa ora, sanza dubbio, e' sarebbero signori di Toscana.
Non è per questo che io giudichi che non si abbia adoperare
l'armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo dove e
quando gli altri modi non bastino.
22
Quanto siano false
molte volte le opinioni degli uomini
nel giudicare le cose grandi.
Quanto siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto
e veggono coloro che si truovono testimoni delle loro diliberazioni: le
quali, molte volte, se non sono diliberate da uomini eccellenti, sono
contrarie ad ogni verità. E perché gli eccellenti uomini
nelle republiche corrotte, nei tempi quieti massime, e per invidia e
per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si va dietro a quello che
o, da uno comune inganno è giudicato bene, o, da uomini che
più presto vogliono i favori che il bene dello universale,
è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi
avversi, e per necessità si rifugge a quegli che nei tempi
quieti erano come dimenticati: come nel suo luogo in questa parte
appieno si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti, dove
facilmente sono ingannati gli uomini che non hanno grande isperienza
delle cose, avendo in sé, quello accidente che nasce, molti
verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini sopra tale caso
si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che Numicio
pretore, poiché i Latini furono rotti dai Romani, persuase loro,
e per quello che, pochi anni sono si credeva per molti, quando
Francesco I re di Francia venne allo acquisto di Milano, che era difeso
da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto Luigi XII, e succedendo
nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e desiderando restituire al
regno il ducato di Milano, stato, pochi anni davanti, occupato da'
Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II, desiderava avere aiuti
in Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre a' Viniziani, che
Luigi si aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa Leone X;
parendogli la sua impresa più facile, qualunque volta si avesse
riguadagnati costoro, per essere genti del re di Spagna in Lombardia,
ed altre forze dello imperadore in Verona. Non cedé Papa Leone
alle voglie del re, ma fu persuaso da quegli che lo consigliavano
(secondo si disse) si stesse neutrale, mostrandogli in questo partito
consistere la vittoria certa: perché per la Chiesa non si faceva
avere potenti in Italia né il re né i Svizzeri ma,
volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario liberarla
dalla servitù dell'uno e dell'altro. E perché vincere
l'uno e l'altro, o di per sé o tutti a dua insieme, non era
possibile; conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con
gli suoi amici urtasse quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed era
impossibile trovare migliore occasione che la presente, sendo l'uno e
l'altro in su i campi, ed avendo il Papa le sue forze a ordine da
potere rappresentarsi in su i confini di Lombardia, e propinquo a l'uno
e l'altro esercito, sotto colore di volere guardare le cose sue, e
quivi stare tanto che venissono alla giornata, la quale
ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrebbe
essere sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo
debilitato il vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e romperlo:
e così verrebbe con sua gloria a rimanere signore di Lombardia,
ed arbitro di tutta Italia. E quanto questa opinione fusse falsa, si
vide per lo evento della cosa: perché, sendo dopo una lunga
zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti del Papa e di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si prepararono alla fuga; la
quale ancora non sarebbe loro giovata, se non fusse stato o la
umanità o la freddezza del re, che non cercò la seconda
vittoria, ma li bastò fare accordo con la Chiesa.
Ha questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al
tutto aliene dalla verità. Perché, rade volte accade che
il vincitore perda assai suoi soldati: perché de' vincitori ne
muore nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del combattere,
quando gli uomini hanno volto il viso l'uno all'altro, ne cade pochi,
massime perché la dura poco tempo, il più delle volte; e
quando pure durasse assai tempo e de' vincitori ne morisse assai,
è tanta la riputazione che si tira dietro la vittoria, ed il
terrore che la porta seco, che di lungi avanza il danno che per la
morte de' suoi soldati avesse sopportato. Talché, se uno
esercito il quale, in su la opinione che fusse debilitato, andasse a
trovarlo, si troverrebbe ingannato; se già, e' non fusse lo
esercito tale che d'ogni tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse
combatterlo. In questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e
virtù, vincere e perdere; ma quello che si fusse azzuffato
prima, ed avesse vinto, arebbe più tosto vantaggio dall'altro.
Il che si conosce certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia
che Numizio pretore prese, e per il danno che ne riportarono quegli
popoli che gli crederono: il quale, vinto che i Romani ebbero i Latini,
gridava per tutto il paese di Lazio, che allora era tempo assaltare i
Romani debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che solo
appresso a' Romani era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli
altri danni avevano sopportati come se fussino stati vinti; e che ogni
poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli. Donde
quegli popoli, che gli crederono, fecero nuovo esercito, e subito
furono rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che
terranno simile opinione.
23
Quanto i Romani
nel giudicare i sudditi
per alcuno accidente che necessitasse
tale giudizio
fuggivano la via del mezzo.
«Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati
possent». Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo
quello d'uno principe o d'una republica che è ridotto in termine
che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si
riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e
dall'altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in
preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi
termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da non avere
misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché
quella republica o quel principe che bene le misurasse, con
difficultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i
quali, quando non dovevano accordare con i Romani, accordarono; e
quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e così
seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu loro
equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti,
prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli
costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo
messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli
statichi; tornato in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era
nelle mani del Popolo romano. E perché questo giudizio è
notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando
simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di
Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i
Romani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre
fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché
uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti
possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto,
togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che non
sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna. Il
che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per
il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste:
«Dii immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit
Latium an non sit, in vestra manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod
ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo
potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios victosque? licet
delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem romanam, victos
in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent.
Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena seu
beneficio praeoccupari oportet». A questa proposta successe la
diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo,
che, recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch'erano di
momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai
beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da
ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le terre,
mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che con
l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né
usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento.
Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo dovevano
accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e
tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero assicurato
lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e
datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro usorono quella
via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli uomini;
e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti
tolsono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e
lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle
diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva
essere più savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della
republica disfarla, perché e' parrebbe che Firenze mancasse di
forze da tenerli. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono
vere; perché con questa medesima ragione non si arebbe a
ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna di
quel principe mostrare di non avere forze da potere frenare uno uomo
solo. E non veggono, questi tali che hanno simili opinioni, come gli
uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal
volta contro a uno stato, che, per esemplo agli altri, per
sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che
spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel
potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non
gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è
tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto
sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de'
Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose:
l'una, quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o
benificare o spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo,
quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel
conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per
giudicare de' Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per
forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di
Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo
venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de'
Senatori, «quam poenam meritos Privernates censeret». Al
quale il Privernate rispose: «Eam, quam merentur qui se libertate
dignos censent». Al quale il Consolo replicò: «Quid
si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros
speremus?». A che quello rispose: «Si bonam dederitis, et
fidelem et perpetuam, si malam, haud diuturnam». Donde la
più savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono,
disse: «se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse
ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum
poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi
voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem
sperandam esse». Ed in su queste parole, deliberarono che i
Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della
civilità gli onorarono, dicendo: «eos demum qui nihil
praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani
fiant». Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa
risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e
vile.
E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che
sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e
sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non
satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le rovine
degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e per questo
e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a giudicare cittadi
potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o
carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggire
al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai
Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando
non vollero seguire il parere di quel vecchio, che consigliò che
i Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma
pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo,
gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco
dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata
utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a
pieno si discorrerà.
24
Le fortezze generalmente
sono molto più dannose che
utili.
E' parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di Lazio e
della città di Priverno, non pensassono di edificarvi qualche
fortezza, la quale fosse uno freno a tenergli in fede; sendo, massime,
un detto in Firenze, allegato da' nostri savi, che Pisa e l'altre
simili città si debbono tenere con le fortezze. E veramente, se
i Romani fussono stati fatti come loro, egli arebbero pensato di
edificarle; ma perché gli erano d'altra virtù, d'altro
giudizio, d'altra potenza, e' non le edificarono. E mentre che Roma
visse libera, e che la seguì gli ordini suoi e le sue virtuose
constituzioni, mai n'edificò per tenere o città o
provincie, ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde veduto il
modo del procedere de' Romani in questa parte, e quello de' principi
de' nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione, s'egli è
bene edificare fortezze, o se le fanno danno o utile a quello che
l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le fortezze si fanno o
per difendersi dagl'inimici o per difendersi da' suggetti. Nel primo
caso le non sono necessarie; nel secondo, dannose. E cominciando a
rendere ragione perché, nel secondo caso, le siano dannose, dico
che quel principe o quella republica che ha paura de' sudditi suoi e
della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che
abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali
portamenti nascono o da potere credere tenergli con forza, o da poca
prudenza di chi gli governa: ed una delle cose che fa credere potergli
forzare, è l'avere loro addosso le fortezze; perché e'
mali trattamenti, che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte
per avere quel principe o quella republica le fortezze: le quali,
quando sia vero questo, di gran lunga sono più nocive che utili.
Perché in prima, come è detto, le ti fanno essere
più audace e più violento ne' sudditi; dipoi, non vi
è quella sicurtà, dentro, che tu ti persuadi:
perché tutte le forze, tutte le violenze che si usono per tenere
uno popolo, sono nulla, eccetto che due; o che tu abbia sempre da
mettere in campagna uno buono esercito, come avevano i Romani, o che
gli dissipi, spenga, disordini e disgiunga, in modo che non possano
convenire a offenderti. Perché, se tu gl'impoverisci,
«spoliatis arma supersunt»; se tu gli disarmi, «furor
arma ministrat»; se tu ammazzi i capi, e gli altri segui d'
ingiuriare, rinascono i capi, come quelli della Idra, se tu fai le
fortezze, le sono utili ne' tempi di pace, perché ti
dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di guerra
sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico e da'
sudditi, né è possibile che le faccino resistenza ed
all'uno ed all'altro. E se mai furono disutili, sono, ne' tempi nostri,
rispetto alle artiglierie; per il furore delle quali i luoghi piccoli e
dove altri non si possa ritirare con gli ripari, è impossibile
difendere, come di sopra discorremo.
Io voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu,
principe, vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della tua
città; o tu, principe, o republica, vuoi frenare una
città occupata per guerra. Io mi voglio voltare al principe, e
gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini, non
può essere più inutile per le cagioni dette di sopra;
perché la ti fa più pronto e men rispettivo a
oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua
rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza, che ne è
cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e
buono, per mantenersi buono, per non dare cagione né ardire a'
figliuoli di diventare tristi, mai non farà fortezza,
acciocché quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza
degli uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca
di Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza,
dico che in questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale
fortezza fu a danno, e non a sicurtà de' suoi eredi.
Perché giudicando mediante quella vivere sicuri, e potere
offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna
generazione di violenza; talché, diventati sopra modo odiosi,
perderono quello stato come prima il nimico gli assaltò:
né quella fortezza gli difese, né fece loro nella guerra
utile alcuno, e nella pace aveva fatto loro danno assai. Perché
se non avessono avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente
maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo più
tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più
animosamente resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici sanza
fortezza, che, con quelli inimici, con la fortezza: le quali non ti
giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di
chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu
vuoi che le ti giovino, e ti aiutino ricuperare uno stato perduto, dove
ti sia rimasa solo la fortezza; ti conviene avere uno esercito, con il
quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato: e quando tu abbi
questo esercito, tu riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la
fortezza non vi fosse; e tanto più facilmente, quanto gli uomini
ti fossono più amici che non ti erano avendogli male trattati
per l'orgoglio della fortezza. E per isperienza si è visto, come
questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né a'
Franciosi, ne' tempi avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a
alcuno di loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato danno e rovine
assai, non avendo pensato, mediante quella, a più onesto modo di
tenere quello stato. Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo,
che fu ne' suoi tempi tanto stimato capitano, sendo cacciato da Cesare
Borgia, figliuolo di papa Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per
uno accidente nato, vi ritornò, fece rovinare tutte le fortezze
che erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché,
sendo quello amato dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e,
per conto de' nimici, vedeva non le potere difendere, avendo quelle
bisogno d'uno esercito in campagna, che le difendesse: talché si
volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna fece in
quella città una fortezza; e dipoi faceva assassinare quel
popolo da uno suo governatore: talché quel popolo si
ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non
gli giovò la fortezza; e l'offese, intanto che, portandosi
altrimenti, gli arebbe giovato. Niccolò da Castello, padre de'
Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito disfece due
fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando, non la fortezza,
ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato. Ma di
tutti gli altri esempli il più fresco ed il più notabile
in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità dello edificarle e
l'utilità del disfarle, è quello di Genova, seguito ne'
prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si ribellò da
Luigi XII re di Francia, il quale venne personalmente e con tutte le
forze sue a riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una fortezza,
fortissima di tutte le altre delle quali al presente si avesse notizia:
perché era, per sito e per ogni altra circunstanza,
inespugnabile, posta in su una punta di colle che si estende nel mare,
chiamato da' Genovesi Codefà; e, per questo, batteva tutto il
porto e gran parte della città di Genova. Occorse poi, nel 1512,
che, sendo cacciate le genti franciose d'Italia, Genova, nonostante la
fortezza, si ribellò, e prese lo stato di quella Ottaviano
Fregoso; il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per
fame la espugnò. E ciascuno credeva, e da molti n'era
consigliato, che la conservasse per suo refugio in ogni accidente; ma
esso, come prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma la
volontà degli uomini mantenevono i principi in stato, la
rovinò. E così, sanza fondare lo stato suo in su la
fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo ha tenuto e
tiene. E dove a variare lo stato di Genova solevano bastare mille
fanti, gli avversari suoi lo hanno assaltato con diecimila, e non lo
hanno potuto offendere. Vedesi adunque per questo, come il disfare la
fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla non difese il re.
Perché, quando ei potette venire in Italia con lo esercito, ei
potette ricuperare Genova, non vi avendo fortezza; ma quando ei non
potette venire in Italia con lo esercito, ei non potette tenere Genova,
avendovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e
vergognoso il perderla; a Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed
utile il rovinarla.
Ma vegnamo alle republiche che fanno le fortezze non nella patria, ma
nelle terre che le acquistano. Ed a mostrare questa fallacia, quando e'
non bastasse lo esemplo detto, di Francia e di Genova, voglio mi basti
Firenze e Pisa: dove i Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella
città; e non conobbero che una città stata sempre inimica
del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha alla rebellione per
rifugio la libertà, era necessario, volendola tenere, osservare
il modo romano; o farsela compagna, o disfarla. Perché la
virtù delle fortezze si vide nella venuta del re Carlo; al quale
si dettono o per poca fede di chi le guardava o per timore di maggiore
male: dove, se le non fussono state, i Fiorentini non arebbero fondato
il potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re non arebbe potuto per
quella via privare i Fiorentini di quella città; e i modi con
gli quali si fusse mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per
avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero fatto
più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che, per
tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per tenere le
terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio mi basti
l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano tenere
con violenza, smuravano, e non muravano. E chi contro a questa opinione
mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni Brescia, i
quali luoghi mediante le fortezze furono recuperati dalla ribellione
de' sudditi, rispondo che alla ricuperazione di Taranto, in capo di uno
anno, fu mandato Fabio Massimo con tutto lo esercito, il quale sarebbe
stato atto a ricuperarlo eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e
se Fabio usò quella via, quando la non vi fusse stata, ne arebbe
usata un'altra che arebbe fatto il medesimo effetto. Ed io non so di
che utilità sia una fortezza che, a renderti la terra, abbia
bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare e d'uno
Fabio Massimo per capitano. E che i Romani l'avessono ripresa in ogni
modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era fortezza, e per
virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia.
Dico, come rade volte occorre quello che occorse in quella rebellione,
che la fortezza che rimane nelle forze tua, sendo ribellata la terra,
abbi uno esercito grosso e propinquo, come era quel de' Franciosi:
perché, sendo monsignor di Fois, capitano del re, con lo
esercito a Bologna, intesa la perdita di Brescia, sanza differire ne
andò a quella volta, ed in tre giorni arrivato a Brescia, per la
fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di
Brescia, a volere che la giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e
d'uno esercito francioso che in tre dì la soccorresse. Sì
che lo esemplo di questo, allo incontro delli esempli contrari, non
basta; perché assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri
tempi, prese e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa
e presa la campagna, non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel
regno di Napoli, e per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo
edificare fortezze per difendersi da' nimici di fuori, dico che le non
sono necessarie a quelli popoli ed a quelli regni che hanno buoni
eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perché i buoni eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a
difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono
difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono stati e
ne' governi e nell'altre cose tenuti eccellenti; come si vede de'
Romani e degli Spartani: che, se i Romani non edificavano fortezze, gli
Spartani, non solamente si astenevano da quelle, ma non permettevano di
avere mura alle loro città; perché volevono che la
virtù dell'uomo particulare, non altro defensivo, gli
difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno Spartano da uno
Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle, gli rispose: -
Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello principe, adunque,
che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e alla fronte dello
stato suo abbia qualche fortezza che possa qualche dì sostenere
el nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa utile, qualche volta,
ma non è necessaria. Ma quando il principe non ha buono
esercito, avere le fortezze per il suo stato, o alle frontiere, gli
sono o dannose o inutili: dannose, perché facilmente le perde, e
perdute gli fanno guerra; o, se pure le fussono sì forti che il
nimico non le potessi occupare, sono lasciate indietro dallo esercito
inimico, e vengono a essere di nessuno frutto; perché i buoni
eserciti, quando non hanno gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi
inimici sanza rispetto di città o di fortezze che si lascino
indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si
lasciò indietro dieci città inimiche, sanza alcuno
rispetto. Quel principe, adunque, che può fare buono esercito,
può fare sanza edificare fortezze; quello che non ha lo esercito
buono, non debbe edificarle. Debbe bene afforzare la città dove
abita, e tenerla munita, e bene disposti i cittadini di quella, per
potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o che aiuto
esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di
pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E così, chi
considererà tutto quello ho detto, conoscerà i Romani,
come savi in ogni altro loro ordine, così furono prudenti in
questo giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi se ne
assicurarono.
25
Che lo assaltare una città
disunita,
per occuparla mediante la sua
disunione,
è partito contrario.
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la
Nobilità, che i Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante tale
disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto
esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò il Senato, loro
contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo condotto il loro
esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i Veienti,
e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e
fu tanta la loro temerità ed insolenzia, che i Romani, di
disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e
vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra
discorremo, nel pigliare de' partiti; e come molte volte credono
guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti, assaltando i
Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione della unione di
quegli, e della rovina loro. Perché la cagione della disunione
delle republiche il più delle volte è l'ozio e la pace;
la cagione della unione è la paura e la guerra. E però,
se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto più
disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra
discosto, e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo
è cercare di diventare confidente di quella città che
è disunita; ed infino che non vengono all'armi, come arbitro
maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori alla
parte più debole; sì per tenergli più in su la
guerra, e fargli consumare; sì perché le assai forze non
gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e diventare
loro principe. E quando questa parte è governata bene,
interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti
hai presupposto. La città di Pistoia, come in altro discorso ed
a altro proposito dissi, non venne sotto alla Republica di Firenze con
altra arte che con questa: perché sendo quella divisa, e
favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza carico
dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca in quel
suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le braccia di
Firenze. La città di Siena non ha mai mutato stato, col favore
de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi.
Perché, quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto
quella città unita alla difesa di quello stato che regge. Io
voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti,
duca di Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi
sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli
ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini
gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono
adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veienti e gli Toscani da
questa opinione, e furano alfine in una giornata superati da' Romani. E
così per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per
simile via e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo.
26
Il vilipendio e l'improperio genera
odio
contro a coloro che l'usano,
sanza alcuna loro utilità.
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini,
astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole:
perché l'una cosa e l'altra non tolgono forze al nimico; ma
l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere maggiore odio contro
di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi questo
per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si
è discorso; i quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono,
contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale ogni capitano
prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perché le sono cose
che infiammano ed accendano il nimico alla vendetta, ed in nessuna
parte lo impediscono, come è detto, alla offesa; tanto che le
sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne seguì
già uno esemplo notabile in Asia: dove Gabade, capitano de'
Persi, essendo stato a campo a Amida più tempo, ed avendo
deliberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi
già con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le
mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna
qualità d'ingiuria, vituperando, accusando, e rimproverando la
viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato,
mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la
indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli prese e
saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali,
come è detto, non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con
le parole gli vituperarono, ed andando infino in su lo steccato del
campo a dire loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le
parole che con le armi: e quegli soldati che prima combattevano mal
volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa, talché i
Veienti portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro.
Hanno dunque i buoni principi di eserciti, ed i buoni governatori di
republica, a fare ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie e
rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo,
né infra loro, né contro al nimico: perché, usati
contro al nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra
loro, farebbero peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli
uomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane, state lasciate a
Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si
narrerà; ed essendone di questa congiura nata una sedizione, la
quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre constituzioni
che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a coloro che
rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio
Gracco, fatto, nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di
servi che i Romani, per carestia d'uomini, avevano armati,
ordinò, intra le prime cose, pena capitale a qualunque
rimproverasse la servitù a alcuno di loro. Tanto fu stimato dai
Romani, come di sopra si è detto, cosa dannosa il vilipendere
gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna; perché non
è cosa che accenda tanto gli animi loro, né generi
maggiore isdegno, o da vero o da beffe che si dica: «Nam facetiae
asperae, quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam
relinquunt».
27
Ai principi e republiche prudenti
debbe bastare vincere;
perché, il più delle
volte,
quando e' non basta, si perde.
Lo usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più
delle volte da una insolenzia che ti dà o la vittoria o la falsa
speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini non
solamente errare nel dire, ma ancora nello operare. Perché
questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa loro
passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella
occasione dell'avere uno bene certo, sperando di avere un meglio
incerto. E perché questo è un termine che merita
considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con
danno dello stato loro, e' mi pare da dimostrarlo particularmente con
esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così
distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a
Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la vittoria,
e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di quello che si avesse a
fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente cittadino cartaginese,
che si usasse questa vittoria saviamente in fare pace con i Romani,
potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto; e non si
aspettasse di averla a fare dopo la perdita: perché la
intenzione de' Cartaginesi doveva essere, mostrare a' Romani come e'
bastavano a combatterli; ed avendosene avuto vittoria, non si cercasse
di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu preso questo
partito; ma fu bene poi, dal Senato cartaginese, conosciuto savio,
quando la occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già
preso tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in quelli tempi, e
potente per avere la loro città in acqua come i Viniziani,
veduta la grandezza di Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come
volevano essere suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva,
ma che non erano già per accettare né lui né sue
genti nella terra; donde sdegnato Alessandro, che una città gli
volesse chiudere quelle porte che tutto il mondo gli aveva aperte, gli
ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi andò a
campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre
munizioni necessarie alla difesa, munita: tanto che Alessandro, dopo
quattro mesi, si avvide che una città gli toglieva quel tempo
alla sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e
diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che per
loro medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti, non
solamente non vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono chi venne a
praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta forza si misse alla
ispugnazione, che la prese, disfece, ed ammazzò e fece schiavi
gli uomini.
Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per
rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città, condotti
da cittadini d'entro, i quali avevano dato loro speranza, che, subito
fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero l'armi in loro favore;
ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo alcuno, ed avendo
carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di che insuperbito il
popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la perdita di
Prato, e la rovina di quello stato. Non possono, pertanto, i principi,
che sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto è
fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare
ogni accordo, massime quando egli è offerto: perché non
sarà mai offerto sì basso, che non vi sia dentro in
qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà
parte della sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di
Tiro, che Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima
rifiutate ed era assai vittoria la loro, quando con l'arme in mano
avevano fatto condiscendere uno tanto uomo alla voglia loro. Doveva
bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai vittoria, se lo
esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di quello e le sue
non adempiva tutte: perché la intenzione di quello esercito era
mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla divozione di Francia, e
trarre da lui danari. Quando di tre cose e' ne avesse avute due, che
son l'ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che era la
conservazione dello stato suo, ci aveva dentro ciascuno qualche onore e
qualche satisfazione: né si doveva il popolo curare delle due
cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa, mettere quella in alcuna parte
a discrezione della fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale
qualunque prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale,
partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da'
suoi Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e
Siface; trovò perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine
intra i termini delle sue mura, alla quale non restava altro refugio
che esso e lo esercito suo. Conoscendo come quella era l'ultima posta
della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe
tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di domandare la
pace, giudicando, se alcuno rimedio aveva la sua patria, era in quella
e non nella guerra: la quale sendogli poi negata, non volle mancare,
dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur vincere, o,
perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era tanto
virtuoso ed aveva il suo esercito intero, cercò prima la pace
che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo quella, la sua patria
diveniva serva, che debbe fare un altro di manco virtù e di
manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che non
sanno porre termini alle speranze loro; ed in su quelle fondandosi,
sanza misurarsi altrimenti, rovinano.
28
Quanto sia pericoloso a una republica
o a uno principe
non vendicare una ingiuria
fatta contro al publico o contro
al privato.
Quello che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce
per quello che avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre Fabii
oratori a' Franciosi, che erano venuti a assaltare la Toscana, ed in
particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di Chiusi
per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono ambasciadori
a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano, significassero loro
che si astenessero di fare guerra a' Toscani. I quali oratori, sendo in
su 'l luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i Franciosi
ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra i primi a combattere contro
a quelli: onde ne nacque che, essendo conosciuti da loro, tutto lo
sdegno avevano contro a' Toscani, volsero contro a' Romani. Il quale
sdegno diventò maggiore, perché, avendo i Franciosi per
loro ambasciadori fatto querela con il Senato romano di tale ingiuria,
e domandato che in soddisfazione del danno fussino loro dati i
soprascritti Fabii, non solamente non furono consegnati loro, o in
altro modo gastigati, ma venendo i comizi, furono fatti Tribuni con
potestà consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli
onorati che dovevano essere puniti, ripresono tutto essere fatto in
loro dispregio e ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a
assaltare Roma, e quella presono, eccetto il Campidoglio. La quale
rovina nacque ai Romani solo per la inosservanza della giustizia;
perché, avendo peccato i loro ambasciatori «contra ius
gentium», e dovendo esserne gastigati, furono onorati.
Però è da considerare quanto ogni republica ed ogni
principe debbe tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente
contro a una universalità, ma ancora contro a uno particulare.
Perché, se uno uomo è offeso grandemente o dal publico o
dal privato e non sia vendicato secondo la soddisfazione sua; se e'
vive in una republica, cerca, ancora che con la rovina di quella,
vendicarsi; se e' vive sotto un principe, ed abbi in sé alcuna
generosità, non si acquieta mai, in fino che in qualunque modo
si vendichi contro a di colui, come che egli vi vedesse, dentro, il suo
proprio male.
Per verificare questo, non ci è il più bello né il
più vero esemplo che quello di Filippo re di Macedonia, padre
d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte Pausania, giovane bello e
nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de' primi uomini che fusse
presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco che dovesse
acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose, diliberò di
avere con inganno e per forza quello che, per altro verso, vedea di non
potere avere. E fatto uno solenne convito, nel quale Pausania e molti
altri nobili baroni convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di
vivande e di vino, prendere Pausania, e, condottolo allo stretto, non
solamente per forza sfogò la sua libidine, ma ancora, per
maggiore ignominia, lo fece da molti degli altri in simile modo
vituperare. Della quale ingiuria Pausania si dolse più volte con
Filippo; il quale, avendolo tenuto un tempo in speranza di vendicarlo,
non solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una
provincia di Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo nimico onorato
e non gastigato, volse tutto lo sdegno suo, non contro a quello che gli
aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo aveva vendicato.
Ed una mattina solenne, in su le nozze della figliuola di Filippo,
ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro, andando Filippo al
tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero e figliuolo,
lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile a quello de'
Romani, e notabile a qualunque governa: che mai non debbe tanto poco
stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo ingiuria sopra ingiuria, che
colui che è ingiuriato non pensi di vendicarsi con ogni suo
pericolo e particulare danno.
29
La fortuna acceca gli animi degli
uomini,
quando la non vuole
che quegli si opponghino a' disegni
suoi.
Se e' si considererà bene come procedono le cose umane, si
vedrà molte volte nascere cose e venire accidenti, a' quali i
cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando, questo che
io dico, intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta
religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga
molto più spesso in una città o in una provincia che
manchi delle cose sopradette. E perché questo luogo è
notabile assai, a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane,
Tito Livio largamente e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo
come, volendo il cielo a qualche fine, che i Romani conoscessono la
potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che andarono oratori a'
Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare guerra a
Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere quella guerra, non si
facesse in Roma alcuna cosa degna del Popolo romano; avendo prima
ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo unico remedio a
tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea; dipoi, venendo i Franciosi
verso Roma, coloro che, per rimediare allo impeto de' Volsci ed altri
finitimi loro inimici, avevano creato molte volte uno Dittatore,
venendo i Franciosi, non lo crearono. Ancora nel fare la elezione de'
soldati, la fecioro debole e sanza alcuna istraordinaria diligenza; e
furono tanto pigri al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a
scontrare i Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci
miglia. Quivi i Tribuni posero il loro campo, sanza alcuna consueta
diligenza; non prevedendo il luogo prima, e non si circundando con
fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano e divino; e
nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e deboli: in modo che
né i soldati né i capitani fecero cosa degna della romana
disciplina. Combattessi poi sanza alcuno sangue; perché ei
fuggirono prima che fussono assaltati, e la maggior parte se
n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i quali, sanza
entrare altrimenti nelle case loro, se ne entrarono in Campidoglio: in
modo che il Senato, sanza pensare di difendere Roma, non chiuse, non
che altro, le porte; e parte se ne fuggì, parte con gli altri se
ne entrarono in Campidoglio. Pure, nel difendere quello, usarono
qualche ordine non tumultuario; perché ei non aggravarono quello
di gente inutile; messonvi tutti i frumenti che poterono,
acciocché potessono sopportare l'ossidione; e della turba
inutile de' vecchi, delle donne e de' fanciugli, la maggior parte se ne
fuggì nelle terre circunvicine, il rimanente restò in
Roma in preda de' Franciosi. Talché, chi avesse letto le cose
fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi quelli tempi,
non potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo
popolo. E detto che Tito Livio ha tutti e' sopradetti disordini,
conchiude dicendo: «Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim suam
ingruentem refringi non vult». Né può più
essere vera questa conclusione: onde gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità,
meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più delle
volte si vedrà quelli a una rovina ed a una grandezza essere
stati convinti da una commodità grande che gli hanno fatto i
cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente.
Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia
condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù,
che ei conosca quelle occasioni che la gli porge. Così
medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine, ella vi prepone
uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno fusse che vi potesse
ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcuno bene. Conoscesi questo benissimo per questo
testo, come la fortuna, per fare maggiore Roma, e condurla a quella
grandezza venne, giudicò fussi necessario batterla (come a lungo
nel principio del seguente libro discorrereno), ma non volle già
in tutto rovinarla. E per questo si vede che la fece esulare, e non
morire, Cammillo; fece pigliare Roma, e non il Campidoglio;
ordinò che i Romani, per riparare Roma, non pensassono alcuna
cosa buona; per difendere poi il Campidoglio, non mancarono di alcuno
buono ordine. Fece, perché Roma fusse presa, che la maggior
parte de' soldati che furono rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e
così, per la difesa della città di Roma, tagliò
tutte le vie. E nell'ordinare questo, preparò ogni cosa alla sua
ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e
Cammillo a Ardea, da potere fare grossa testa, sotto uno capitano non
maculato d'alcuna ignominia per la perdita, ed intero nella sua
riputazione per la recuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confermazione delle cose dette qualche esemplo
moderno; ma, per non gli giudicare necessari, potendo questo a
qualunque satisfare, gli lascereno indietro. Affermo, bene, di
nuovo,questo essere verissimo, secondo che per tutte le istorie si
vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli;
possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non si
abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando
quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e
sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque
travaglio si truovino.
30
Le republiche
e gli principi veramente potenti
non comperono l'amicizie con danari,
ma con la virtù e con la
riputazione
delle forze.
Erano i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino
aspettassono il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla
fame, vennono a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa
quantità d'oro; e sopra tale convenzione pesandosi di già
l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che fece, dice lo
istorico, la fortuna, «ut Romani auro redempti non
viverent». La quale cosa non solamente è notabile in
questa parte, ma etiam nel processo delle azioni di questa Republica;
dove si vede che mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace
con danari, ma sempre con la virtù dell'armi: il che non credo
sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra gli altri segni
per gli quali si conosce la potenza d'uno stato forte, è vedere
come egli vive con gli vicini suoi. E quando ei si governa in modo che
i vicini, per averlo amico, sieno suoi pensionari, allora è
certo segno che quello stato è potente: ma quando detti vicini,
ancora che inferiori a lui, traggono da quello danari, allora è
segno grande della debolezza di quello.
Legghinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli
Edui, i Rodiani, Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali
tutti erano vicini ai confini dello imperio romano, per avere
l'amicizia di quello concorrevono a spese ed a tributi ne' bisogni
d'esso, non cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al
contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal
nostro di Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione,
non era signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e
di più la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri
suoi vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda,
sarebbe tutto ito per il contrario; perché molti, per avere la
protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco, non di vendere
la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa
viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di
Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario di Svizzeri, e
del re d'Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere disarmati i popoli
suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente utile, di potere saccheggiare i
popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che vero pericolo,
che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro stati felici in
perpetuo. Il quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche
quiete, è cagione col tempo di necessità, di danni e
rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante volte i
Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in su le
guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a che i
Romani una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe lungo
raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di
che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si
acquistano con l'oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono
i Romani questa generosità e questo modo di vivere, mentre che
ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto gl'imperadori, e che
gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed amare più
l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai
Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu
principio della rovina di tanto Imperio.
Procedono, pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi
popoli: di che ne risulta uno altro, maggiore, che quanto il nimico
più ti si appressa, tanto ti truova più debole.
Perché chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli
sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono in su
i confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il
nimico discosto. Da questo nasce che, per tenerlo più discosto,
ei dà provvisione a quelli signori e popoli che sono propinqui
ai confini suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno
un poco di resistenza in sui confini, ma, come il nimico gli ha
passati, ei non hanno rimedio alcuno. E non si avveggono, come questo
modo del loro procedere è contro a ogni buono ordine.
Perché il cuore e le parti vitali d'uno corpo si hanno a tenere
armate, e non le estremità d'esso; perché sanza quelle si
vive, e, offeso questo, si muore: e questi stati tengono il cuore
disarmato, e le mani e li piedi armati.
Quello che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto,
e vedesi ogni dì: e come uno esercito passa i confini, e che gli
entra dentro propinquo al cuore, non truova più alcuno rimedio.
De' Viniziani si vide, pochi anni sono, la medesima pruova; e se la
loro città non era fasciata dalle acque, se ne sarebbe veduto il
fine. Questa isperienza non si è vista sì spesso in
Francia, per essere quello sì gran regno, ch'egli ha pochi
inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513,
assaltarono quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re
medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una rotta sola gli potessi
tôrre il regno e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario;
perché, quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto
più trovava potente quella città a resistergli. E si vide
nella venuta d'Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e dopo tante
morti di capitani e di soldati, ei poterono, non solo sostenere il
nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il
cuore, e delle estremità tenere meno conto. Perché il
fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le
altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei traevano
tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere
il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda che fece Annone
cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo la rotta di Canne, i quali
avendo magnificato le cose fatte da Annibale, furono domandati da
Annone, se del popolo romano alcuno era venuto a domandare pace, e se
del nome latino e delle colonie alcuna terra si era ribellata dai
Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa, replicò Annone: -
Questa guerra è ancora intera come prima -.
Vedesi, pertanto, e per questo discorso, e per quello che più
volte abbiamo altrove detto, quanta diversità sia, dal modo del
procedere delle republiche presenti, a quello delle antiche. Vedesi
ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite e miracolosi
acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca virtù, la
fortuna mostra assai la potenza sua; e, perché la è
varia, variano le republiche e gli stati spesso; e varieranno sempre,
infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto
amatore, che la regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a
ogni girare di sole, quanto ella puote.
31
Quanto sia pericoloso credere
agli sbanditi.
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri
discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che sono cacciati
della patria sua, essendo cose che ciascuno dì si hanno a
praticare da coloro che tengono stati; potendo, massime, dimostrare
questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio nelle sue
istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando Alessandro
Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro,
cognato e zio di quello, venne con gente in Italia, chiamato dagli
sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe, mediante
loro, occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede
e speranza loro venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro
promessa la ritornata nella patria dai loro cittadini, se lo
ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia vana e la fede e
le promesse di quelli che si truovano privi della loro patria.
Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque volta
e' possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria
loro, che lasceranno te ed accosterannosi a altri, nonostante qualunque
promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane promesse e speranze,
egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare
in casa, che ei credono naturalmente molte cose che sono false e molte
a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei credono e quello
che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che,
fondatoti in su quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa
dove tu rovini.
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più
Temistocle ateniese; il quale, essendo fatto ribello, se ne
fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto, quando ei
volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le quali
promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per
tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore
fu fatto da Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che
tanto più vi errino coloro che, per minore virtù, si
lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe,
adunque, uno principe andare adagio a pigliare imprese sopra la
relazione d'uno confinato, perché il più delle volte se
ne resta o con vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora
rade volte riesce il pigliare le terre di furto, e per intelligenzia
che altri avesse in quelle, non mi pare fuora di proposito discorrerne
nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti modi i Romani le
acquistavano.
32
In quanti modi i Romani
occupavano le terre.
Essendo i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con
ogni vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa che in
essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono da il pigliare le
terre per ossidione; perché giudicavano questo modo di tanta
spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga la
utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo
pensarono che fosse meglio e più utile soggiogare le terre per
ogni altro modo che assediandole, donde in tante guerre ed in tanti
anni ci sono pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro. I modi,
adunque, con i quali gli acquistavano le città, erano o per
espugnazione o per dedizione. La espugnazione era o per forza e
violenza aperta, o per forza mescolata con fraude. La violenza aperta
era o con assalto, sanza percuotere le mura (il che loro chiamavano
«aggredi urbem corona» perché con tutto lo esercito
circundavono la città, e da tutte le parti la combattevano); e
molte volte riuscì loro che in uno assalto pigliarono una
città, ancora che grossissima, come quando Scipione prese
Cartagine Nuova in Ispagna; o, quando questo assalto non bastava, si
dirizzavano a rompere le mura con arieti, o con altre loro machine
belliche: o ei facevano una cava, e per quella entravano nella
città (nel quale modo presono la città de' Veienti); o,
per essere equali a quegli che difendevano le mura, facevono torri di
legname, o ei facevono argini di terra appoggiati alle mura di fuori,
per venire all'altezza d'esse sopra quegli. Contro a questi assalti,
chi difendeva la terra, nel primo caso, circa lo essere assaltato
intorno intorno, portava più subito pericolo, ed aveva
più dubbi rimedi: perché, bisognandogli in ogni luogo
avere assai difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che
potessero o sopperire per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano
tutti di equale animo a resistere, e da una parte che fusse inchinata
la zuffa, si perdevano tutti. Però occorse, come io ho detto,
che molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non
riusciva al primo, non lo ritentavono molto, per essere modo pericoloso
per lo esercito; perché, distendendosi in tanto spazio, restava
per tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di dentro
avessono fatta; ed anche si disordinavano e straccavano i soldati; ma
per una volta ed allo improvviso tentavano tale modo. Quanto alla
rottura delle mura, si opponevano, come ne' presenti tempi, con ripari.
E per resistere alle cave, facevano una contracava, e per quella si
opponevano al nimico, o con le armi o con altri ingegni: intra i quali
era questo, che gli empievano dogli di penne, nelle quali appiccavano
il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i quali con il fumo e con
il puzzo impedivano la entrata a' nimici. E se con le torre gli
assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto agli argini
di terra, rompevano il muro da basso, dove lo argine s'appoggiava,
tirando dentro la terra che quegli di fuori vi ammontavano;
talché, ponendosi di fuora la terra, e levandosi di drento,
veniva a non crescere l'argine. Questi modi di espugnare non si possono
lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da campo o cercare per altri
modi vincere la guerra; come fe' Scipione, quando, entrato in Africa,
avendo assaltato Utica e non gli riuscendo pigliarla, si levò da
campo, e cercò di rompere gli eserciti cartaginesi: ovvero
volgersi alla ossidione, come fecero a Veio, Capova, Cartagine e
Ierusalem e simili terre, che per ossidione occuparono. Quanto allo
acquistare le terre per violenza furtiva, occorre come intervenne di
Palepoli, che per trattato di quelli di dentro i Romani la occuparono.
Di questa sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state
tentate molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni
minimo impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano
facilmente. Perché, o la congiura si scuopre innanzi che si
venga allo atto, e scuopresi non con molta difficultà, sì
per la infedelità di coloro con chi la è communicata,
sì per la difficultà del praticarla, avendo a convenire
con i nimici, e con chi non ti è lecito, se non sotto qualche
colore, parlare. Ma quando la congiura non si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in atto, mille
difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi al tempo
disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa: se si lieva uno
romore fortuito, come l'oche del Campidoglio, se si rompe un ordine
consueto; ogni minimo errore, ogni minima fallacia che si piglia,
rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre della notte, le
quali mettono più paura a chi travaglia in quelle cose
pericolose. Ed essendo la maggiore parte degli uomini che si conducono
a simili imprese, inesperti del sito del paese, e de' luoghi dove ei
sono menati, si confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e
fortuito accidente, ed ogni immagine falsa è per fargli mettere
in volta. Né si trovò mai alcuno che fosse più
felice in queste ispedizioni fraudolente e notturne, che Arato
Sicioneo; il quale, quanto valeva in queste, tanto nelle diurne ed
aperte fazioni era pusillanime: il che si può giudicare fosse
più tosto per una occulta virtù che era in lui, che
perché in quelle naturalmente dovesse essere più
felicità. Di questi modi, adunque, se ne pratica assai, pochi se
ne conduce alla pruova, e pochissimi ne riescono.
Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La volontà nasce, o per qualche
necessità estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi sotto,
come fece Capova ai Romani, o per desiderio di essere governati bene,
sendo allettati da il governo buono che quel principe tiene in coloro
che se gli sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i Rodiani, i
Massiliensi ed altre simile cittadi, che si dettono al Popolo romano.
Quanto alla dedizione forzata, o tale forza nasce da una lunga
ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una continova
oppressione di scorrerie, di predazioni, ed altri mali trattamenti; i
quali volendo fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi
detti, i Romani usarono più questo ultimo che nessuno; ed
attesono per più che quattrocento cinquanta anni a straccare i
vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare, mediante gli
accordi, riputazione sopra di loro, come altre volte abbiamo discorso.
E sopra tale modo si fondarono sempre, ancora che gli tentassino tutti;
ma negli altri trovarono cose o pericolose o inutili. Perché
nella ossidione è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione,
dubbio e pericolo; nelle congiure, la incertitudine. E viddono che con
una rotta di esercito inimico acquistavano un regno in un giorno; e,
nel pigliare per ossidione una città ostinata, consumavano molti
anni.
33
Come i Romani
davano agli loro capitani
degli eserciti le commissioni libere.
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria,
volendone fare profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e
Senato romano. Ed intra le altre cose che meritano considerazione,
sono: vedere con quale autorità ei mandavano fuori i loro
Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali si vede
l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si
riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di
confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e
potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo
e dal Senato una guerra, verbigrazia contro a' Latini, tutto il resto
rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva o fare una
giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come
a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti esempli, e massime
per quello che occorse in una espedizione contro a' Toscani.
Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso a Sutri, e
disegnando con lo esercito dipoi passare la selva Cimina ed andare in
Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma non
gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a
fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora
per le deliberazioni che allo incontro di questo furono fatte dal
Senato: il quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e
dubitando che quello non pigliasse partito di passare per le dette
selve in Toscana, giudicando che fosse bene non tentare quella guerra e
correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legati a fargli
intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi era
già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di
impeditori della guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della
gloria avuta. E chi considererà bene questo termine, lo
vedrà prudentissimamente usato; perché, se il Senato
avesse voluto che un Consolo procedessi nella guerra di mano in mano,
secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e
più lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria
della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con
el consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il
Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne poteva
intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti uomini
esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non
sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere
consigliare bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per
questo ei volevano che il Consolo per sé facesse, e che la
gloria fosse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse
freno e regola a farlo operare bene. Questa parte si è
più volentieri notata da me, perché io veggo che le
republiche de' presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina,
la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori o
commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e
consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli altri,
i quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che al presente
si truovano.