Niccolò
Machiavelli
Discorsi sopra la Prima Deca
Di Tito Livio
(1513 - 1519)
1
A volere che una setta
o una republica viva lungamente,
è necessario ritirarla spesso
verso il suo principio.
Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il
termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo
loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli altera,
è a salute, e non a danno suo. E perché io parlo de'
corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle
alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E
però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga
vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero
che, per qualche accidente fuori di detto ordine, vengono a detta
rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che, non
si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli,
è, come è detto, ridurgli verso e' principii suoi.
Perché tutti e' principii delle sètte, e delle republiche
e de' regni, conviene che abbiano in sé qualche bontà,
mediante la quale ripiglio la prima riputazione ed il primo augumento
loro. E perché nel processo del tempo quella bontà si
corrompe, se non interviene cosa che la riduca al segno, ammazza di
necessità quel corpo. E questi dottori di medicina dicono,
parlando de' corpi degli uomini, «quod quotidie aggregatur
aliquid, quod quandoque indiget curatione». Questa riduzione
verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente
estrinseco o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come
egli era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la
rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e
ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le quali
in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo si comprende per la
istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar fuori lo esercito contro
ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con la potestà consolare,
non osservorono alcuna religiosa cerimonia. Così medesimamente,
non solamente non punirono i tre Fabii, i quali «contra ius
gentium» avevano combattuto contro ai Franciosi, ma gli crearono
Tribuni. E debbesi facilmente presuppore, che dell'altre constituzioni
buone, ordinate da Romolo e da quegli altri principi prudenti, si
cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a
mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa battitura estrinseca,
acciocché tutti gli ordini di quella città si
ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i
suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro virtù
che di quegli commodi che e' paresse loro mancare, mediante le opere
loro. Il che si vede che successe appunto; perché, subito
ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica religione loro;
punirono quegli Fabii che avevano combattuto «contra ius
gentium»; ed appresso tanto stimorono la virtù e
bontà di Cammillo, che posposto, il Senato e gli altri, ogni
invidia, rimettevano in lui tutto il pondo di quella republica.
È necessario, adunque, come è detto, che gli uomini che
vivono insieme in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o per
questi accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E quanto a questi,
conviene che nasca o da una legge, la quale spesso rivegga il conto
agli uomini che sono in quel corpo; o veramente da uno uomo buono che
nasca fra loro, il quale con i suoi esempli e con le sue opere virtuose
faccia il medesimo effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene
nelle republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno
ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la
Republica romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed
alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere
fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale animosamente
concorre ad esequirli contro alla potenza di quegli che gli trapassano.
Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma da' Franciosi,
furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la morte de' dieci
cittadini, quella di Melio frumentario: dopo la presa di Roma, fu la
morte di Manlio Capitolino, la morte del figliuolo di Manlio Torquato,
la esecuzione di Papirio Cursore contro a Fabio suo Maestro de'
cavalieri, l'accusa degli Scipioni. Le quali cose, perché erano
eccessive e notabili, qualunque volta ne nasceva una, facevano gli
uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad essere
più rare, cominciarono anche a dare più spazio agli
uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e più
tumulto. Perché dall'una all'altra di simili esecuzioni non
vorrebbe passare, il più, dieci anni: perché, passato
questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i costumi e
trapassare le leggi; e se non nasce cosa per la quale si riduca loro a
memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la paura, concorrono
tosto tanti delinquenti, che non si possono più punire sanza
pericolo. Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo
stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario
ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile
mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo stato, mettere quel terrore e
quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in
quel tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere,
male operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli
uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire male; e
però è necessario provvedervi, ritirando quello verso i
suoi principii. Nasce ancora questo ritiramento delle republiche verso
il loro principio dalla semplice virtù d'un uomo, sanza
dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione:
nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli uomini
buoni disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano a tenere vita
contraria a quelle. Quegli che in Roma particularmente feciono questi
buoni effetti, furono Orazio Cocle, Scevola, Fabrizio, i dua Deci,
Regolo Attilio, ed alcuni altri i quali con i loro esempli rari e
virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto che si facessino le
leggi e gli ordini. E se le esecuzioni soprascritte, insieme con questi
particulari esempli, fossono almeno seguite ogni dieci anni in quella
città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai
corrotta: ma come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste
due cose, cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo
Marco Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in
Roma surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed
intra loro dall'uno all'altro, e rimasono sì soli, che non
potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e massime
l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la città
corrotta, non potette con lo esemplo suo fare che i cittadini
diventassino migliori. E questo basti quanto alle republiche.
Ma quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere
necessarie, per lo esemplo della nostra religione, la quale, se non
fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da
Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la
povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono
nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono
sì potenti gli ordini loro nuovi, che ei sono cagione che la
disonestà de' prelati e de' capi della religione non la
rovinino; vivendo ancora poveramente, ed avendo tanto credito nelle
confessioni con i popoli e nelle predicazioni, che ci dànno loro
a intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene
vivere sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli
gastigare a Dio: e così quegli fanno il peggio che possono,
perché non temono quella punizione che non veggono e non
credono. Ha, adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene, questa
religione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di
quegli verso i suoi principii. E si vede quanto buono effetto fa questa
parte nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le leggi e sotto
gli ordini più che alcuno altro regno. Delle quali leggi ed
ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel di Parigi; le
quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una esecuzione contro
ad un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue
sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto per essere stato uno
ostinato esecutore contro a quella Nobilità: ma qualunque volta
ei ne lasciassi alcuna impunita, e che le venissono a multiplicare,
sanza dubbio ne nascerebbe o che le si arebbono a correggere con
disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.
Conchiudesi, pertanto, non essere cosa più necessaria in uno
vivere comune, o setta o regno o republica che sia, che rendergli
quella riputazione ch'egli aveva ne' principii suoi; ed ingegnarsi che
siano o gli ordini buoni o i buoni uomini che facciano questo effetto,
e non lo abbia a fare una forza estrinseca. Perché, ancora che
qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è
tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E per
dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari
facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni
effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli: intra e'
termini de' quali questo terzo libro, ed ultima parte di questa prima
Deca, si concluderà. E benché le azioni degli re fossono
grandi e notabili nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le
lascerò indietro; né parlereno altrimenti di loro,
eccetto che di alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro
privati commodi; e comincerenci da Bruto, padre della romana
libertà.
2
Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per
alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto
nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito Livio non
esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione,
quale fu di potere più sicuramente vivere e mantenere il
patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di procedere, si
può credere che simulasse ancora questo per essere manco
osservato, ed avere più commodità di opprimere i Re e di
liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione. E,
che pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo
d'Apolline, quando simulò cadere per baciare la terra,
giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e
dipoi, quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed
altri parenti di lei, ei fu il primo a trarle il coltello della ferita,
e fare giurare ai circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo
avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad
imparare tutti coloro che sono male contenti d'uno principe: e debbono
prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono sì
potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra,
debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più
onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le
forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli
amici: ed a questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano
essere necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando
dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa
dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare alcuno
pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con
esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo.
Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli principi non
stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né
sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire
sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più
vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia
impossibile, conviene ridursi a' duoi modi soprascritti, cioè o
di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo,
per la qualità sua, notabile, vive in continovo pericolo.
Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa, non disidero
né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e
sanza briga! - perché queste scuse sono udite e non accettate:
né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo
starsi, quando bene lo eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione,
perché non è loro creduto; talché, se si vogliono
stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene adunque fare il
pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto, laudando, parlando,
veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per compiacere al
principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo
uomo per ricuperare la libertà a Roma, parlereno ora della sua
severità nel mantenerla.
3
Come egli è necessario,
a volere mantenere una libertà
acquistata di nuovo,
ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel
mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva acquistata;
la quale è di uno esemplo raro in tutte le memorie delle cose:
vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi
figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E sempre si
conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno:
come, dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da
tirannide in republica è necessaria una esecuzione memorabile
contro a' nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide
e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i
figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E perché di sopra
è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che
allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne'
dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo è
Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e
bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di
ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E
benché quello, per la sua prudenza, conoscesse questa
necessità; e che la sorte e l'ambizione di quelli che lo
urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai
l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la
pazienza e con la bontà estinguere i mali omori, e con i premii
verso qualcuno consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte
volte ne fece con gli amici fede) che, a volere gagliardamente urtare
le sue opposizioni, e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare
istraordinaria autorità, e rompere con le leggi la civile
equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui usata
tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe
mai poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a
vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene augumentare e
mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si
debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel
bene facilmente possa essere, da quel male, oppressato. E doveva
credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal
fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva
certificare ciascuno, come, quello l'aveva fatto, era per salute della
patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo, che
uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi
fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo
che la malignità non è doma da tempo né placata da
alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e'
perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E
come egli è cosa difficile salvare uno stato libero, così
è difficile salvarne uno regio; come nel sequente capitolo si
mosterrà.
4
Non vive sicuro uno principe
in uno principato, mentre vivono
coloro
che ne sono stati spogliati.
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte
di Servio Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil
sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello lasciare vivo,
ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio
Prisco fu ingannato da parergli possedere quel regno giuridicamente,
essendogli stato dato dal Popolo e confermato dal Senato: né
credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non
avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma. E Servio
Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti guadagnarsi i
figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si
può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo
principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati.
Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le
ingiurie vecchie furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno,
quanto il beneficio nuovo è minore che non è stata la
ingiuria. E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i
figliuoli di Tarquinio fussono pazienti ad essere generi di colui di
chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito del regnare
è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a
chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si aspetta: come fu
nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la quale,
mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il
marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava
più essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio
Prisco e Servio Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare
di coloro a chi ei lo avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo
perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel
sequente capitolo si mosterrà.
5
Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia, di quello,
ereditario.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo
eredi, veniva a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di
quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E, benché il
modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso,
nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi ordini delli altri
re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il Senato
e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato
costui per avere Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere
rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al
Senato ogni autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle
faccende che ne' luoghi publici con sodisfazione del Senato romano si
facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed invidia sua;
talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta quella
libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né
gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora,
contro, la Plebe, affaticandola in cose mecaniche e tutte aliene da
quello a che gli avevano adoperati i suoi antecessori: talché,
avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva disposto
già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta
ne avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto,
come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo
effetto. Perché se Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e
Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e
Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al
Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora ei
cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e
quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali
lungo tempo gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello
stato, ei diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con
quanta facilità i principati si tenghino da coloro che
saviamente si consigliano, dorrebbe molto più loro tale perdita,
ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono condannati.
Perché egli è molto più facile essere amato dai
buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro.
E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno
a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de'
principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e
simili: nella vita dei quali ei troveria tanta sicurtà e tanta
sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe
venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette,
farlo. Perché gli uomini, quando sono governati bene, non
cercono né vogliono altra libertà: come intervenne a'
popoli governati dai dua prenominati; che gli costrinsono ad essere
principi mentre che vissono, ancora che da quegli più volte
fosse tentato di ridursi in vita privata. E perché in questo, e
ne' due antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori
concitati contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di
Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco
ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente
capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata
da' principi e da' privati.
6
Delle congiure.
Ei non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle
congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati;
perché si vede per quelle molti più principi avere
perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il
poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi:
il poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra
parte, gli uomini privati non entrano in impresa più pericolosa
né più temeraria di questa; perché la è
difficile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce che molte
se ne tentino, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché,
adunque, i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i
privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere
contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato
loro proposto; io ne parlerò diffusamente, non lasciando
indietro alcuno caso notabile in documento dell'uno e dell'altro. E
veramente, quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che
dice: che gli uomini hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire
alle presenti; e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si
sieno fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più
delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a
chi si fanno le congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o
contro ad uno principe: delle quali due voglio che al presente
ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra a'
nimici che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione,
similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza.
E trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe, e
prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne
è importantissima più che tutte le altre. E questa
è lo essere odiato dallo universale, perché il principe
che si è concitato questo universale odio, è ragionevole
che abbi de' particulari i quali da lui siano stati più offesi,
e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro
da quella mala disposizione universale che veggono essergli concitata
contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e
come debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio
parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice offese
particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si riscontra
rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che si mettino a
tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando pure ei fossono
d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza
universale che veggono avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che
siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di quelle del sangue sono
più pericolose le minacce che le esecuzioni; anzi, le minacce
sono pericolosissime, e nelle esecuzioni non vi è pericolo
alcuno; perché chi è morto non può pensare alla
vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che si
vede costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa
uno uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo
particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e
l'onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che
alcun'altra offesa, e dalle quali il principe si debbe guardare:
perché e' non può mai spogliare uno, tanto, che non gli
rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare
uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli onori
che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo
questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania
contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri contro a
molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a
congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello
data e poi tolta per moglie una sua figliuola; come nel suo loco
direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai
Medici, fu la eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro
tolta per ordine di quegli. Un'altra cagione ci è, e
grandissima, che fa gli uomini congiurare contro al principe; la quale
è il desiderio di liberare la patria, stata da quello occupata.
Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso
molti altri contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della
patria loro. Né può, da questo omore, alcuno tiranno
guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si
truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino male;
donde nacque quel verso di Iuvenale:
Ad generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono
grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi si
corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono.
Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più. Uno, non si
può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione
nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo, de' tre
pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo; perché,
innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo, non avendo altri il
suo secreto, né portando pericolo che torni il disegno suo
all'orecchio del principe. Questa deliberazione così fatta
può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte, grande,
piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe;
perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed a
chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo.
Pausania, del quale altre volte si è parlato, ammazzò
Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati d'intorno,
ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e
cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una
coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la
ferita mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo e
commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse d'una
scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma
ebbe pure animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi
fatti così, se ne truova, credo, assai che lo vorrebbono fare,
perché nel volere non è pena né pericolo alcuno;
ma pochi che lo facciano: ma di quelli che lo fanno, pochissimi o
nessuno che non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova
chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche
volontà, e veniamo alle congiure intra i più. Dico,
trovarsi nelle istorie, tutte le congiure essere fatte da uomini
grandi, o familiarissimi del principe: perché gli altri, se non
sono matti affatto, non possono congiurare; perché gli uomini
deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e
di tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una
congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi
tenga loro fede; perché uno non può consentire alla
volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli
uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si sono allargati in
dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma quando
pure si fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono
nella esecuzione intorniati da tale difficultà, per non avere
l'entrata facile al principe, che gli è impossibile che in essa
esecuzione ei non rovinino. Perché, se gli uomini grandi, e che
hanno l'entrata facile, sono oppressi da quelle difficultà che
di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle difficultà
sanza fine creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la
vita e la roba, non sono al tutto insani) quando e' si veggono deboli,
se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe, attendono a
bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore qualità
di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi
simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la
intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno
congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari, del
principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi
beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a
Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio. Costoro
tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore
e grado, che non pareva che mancasse loro, alla perfezione della
potenza, altro che lo imperio; e di questo non volendo mancare, si
mossono a congiurare contro al principe; ed ebbono le loro congiure
tutte quel fine che meritava la loro ingratitudine: ancora che di
queste simili ne' tempi più freschi ne avessi buono fine quella
di Iacopo di Appiano contro a messer Piero Gambacorti, principe di
Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui, gli
tolse poi lo stato. Fu di queste quella del Coppola, ne' nostri tempi,
contro il re Ferrando d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta
grandezza che non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere
ancora quello, perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura
contro ai principi, fatta da uomini grandi, dovesse avere buono fine,
doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si può
dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo disiderio:
ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli accieca
ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono
fare questa cattività con prudenza, sarebbe impossibile non
riuscisse loro. Debbe, adunque, uno principe che si vuole guardare
dalle congiure, temere più coloro a chi elli ha fatto troppi
piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte troppe ingiurie.
Perché questi mancono di commodità, quelli ne abondano; e
la voglia è simile, perché gli è così
grande o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello
della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro
amici, che da quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia
in mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada
se non interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma
torniamo all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che
abbino l'adito facile al principe, si ha a discorrere i successi di
queste loro imprese quali siano stati, e vedere la cagione che gli ha
fatti essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si
truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su 'l fatto e poi.
Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è
impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a
discorrere e' pericoli di prima, che sono i più importanti,
dico, come e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte,
che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o
per relazione, o per coniettura. La relazione nasce da trovare poca
fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La poca
fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se non
con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino alla morte, o con uomini
che siano male contenti del principe. De' fidati se ne potrebbe trovare
uno o due; ma, come tu ti distendi in molti, è impossibile gli
truovi: dipoi, e' bisogna bene che la benivolenza che ti portano sia
grande, a volere che non paia loro maggiore il pericolo e la paura
della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il più delle volte,
dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi
mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in
questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza
in qualche altra cosa pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non
puoi da quella fede misurare questa, passando, questo, di gran lunga,
ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala
contentezza che uno abbia del principe, in questo tu ti puoi facilmente
ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel male
contento l'animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e
conviene bene, o che l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia
grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne' primi
principii loro; e che, quando una è stata infra molti uomini
segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa: come fu quella di
Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi, quella de' Pazzi contro a
Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle quali erano consapevoli più
che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione, a scoprirsi.
Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne
parla poco cauto, in modo che uno servo o altra terza persona
t'intenda, come intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare
la cosa con i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli
accusò: ovvero quando per leggerezza ti viene communicata a
donna o a fanciullo che tu ami o a simile leggieri persona; come fece
Dimmo, uno de' congiurati con Filota contro a Alessandro Magno, il
quale communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui;
il quale subito la disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el
re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la
congiura Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de'
congiurati, il dì dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare Nerone,
fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi
arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi
servi e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite:
per le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò
a Nerone. Fu preso Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i
quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto insieme, il
dì davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono
forzati a confessare il vero talché la congiura fu scoperta, con
rovina di tutti i congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le congiure è impossibile
guardarsi che, per malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non si
scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono il numero di tre o di
quattro. E come e' ne è preso più che uno, è
impossibile non riscontrarla, perché due non possano essere
convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne sia preso
solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza dello
animo, tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano
meno animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga:
perché da una parte che l'animo manca o da chi è
sostenuto o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed
è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta
contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno de'
congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i
congiurati, ed accusò gli amici del re, e dall'altra parte, i
congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno
si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi,
adunque, per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi
che si venga alla esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono
questi rimedi. Il primo ed il più vero, anzi, a dire meglio,
unico, è non dare tempo ai congiurati di accusarti; e comunicare
loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno
fatto così, fuggono al certo i pericoli che sono nel praticarla,
e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice
fine: e qualunque prudente arebbe commodità di governarsi in
questo modo. Io voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di
Epiro, ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e,
confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a
diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi serrare la
casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi giurerete di
andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni
ad Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati,
sanza intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato
esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de' Persi,
ed avendo Ortano, uno de' grandi uomini del regno, intesa e scoperta la
fraude, lo conferì con sei altri principi di quello stato,
dicendo come gli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel
Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno
de' sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno ora a fare questa
esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E così
d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi, esequirono
felicemente i disegni loro. Simile a questi due esempli ancora è
il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide, tiranno spartano; i
quali mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavagli e dugento
fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto
solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo
ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò
costui in Sparta, e non comunicò mai la commissione sua se non
quando e' la volle esequire: donde gli riuscì d'ammazzarlo.
Costoro, adunque per questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli che si
portano nel maneggiare le congiure; e chi imiterà loro, sempre
gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di
Pisone preallegato di sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo
uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava
Nerone ne' suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone
farsi amici uomini, d'animo e di cuore e di disposizione atti ad una
tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo); e quando
Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le
parole convenienti inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo
a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E così, se
si esamineranno tutte l'altre, si troverrà poche non essere
potute condursi nel medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco
intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno errori gravissimi, e
tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario,
come è questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se
non necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare,
comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima isperienza,
o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne uno così
fatto è molto più facile che trovarne più, e per
questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti ingannassi,
vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove siano
congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che
con uno si può parlare ogni cosa, perché tanto vale, se
tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il sì dell'uno
quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come
da uno scoglio, perché non è cosa che più
facilmente ti convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano, volendo
fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la
cosa a Saturnino tribuno; il quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo,
e dubitando che, venendo all'accusa, e' non fussi più creduto a
Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facessi
fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato
dall'ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno,
accusato e convinto; e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni,
sarebbe stato Plauziano superiore; tanto audacemente negava. Truovasi,
adunque, nell'accusa d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere
da una scrittura, o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe
guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per lo
adietro amica di Nerone; la quale giudicando che fussi a proposito
mettere tra i congiurati uno capitano di alcune trireme che Nerone
teneva per sua guardia, gli comunicò la congiura ma non i
congiurati. Donde, rompendogli quello capitano la fede ed accusandola a
Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso
confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa
ad uno solo, due pericoli: l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro,
che non ti accusi convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso
per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno e
nell'altro di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi
negare l'uno, allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare
l'altro, allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie.
È, adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare
secondo gli esempli soprascritti; o, quando pure la comunichi, non
passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve
n'è meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo
modo è quando una necessità ti costringa a fare quello al
principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale sia
tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad assicurarti.
Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine
desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo,
imperadore, Leto ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed intra'
primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine
o amiche; e perché egli era da costoro qualche volta ripreso de'
modi con i quali maculava la persona sua e lo Imperio, diliberò
di farli morire; e scrisse in su una listra Marzia, Leto ed Eletto ed
alcuni altri che voleva, la notte sequente fare morire; e quella listra
messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo ito a lavarsi, un
fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel letto, gli
venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano,
riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il
contenuto di essa, subito mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto
tutti a tre il pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e,
sanza mettere tempo in mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo.
Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in
Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più civile
che armigero; e, come avviene ch'e' principi non buoni temono sempre
che altri non operi, contro a loro, quello che par loro meritare,
scrisse Antonino a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli
astrologi, s'egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene
avvisasse. Donde Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi
aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d'ammazzare
lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire, commisse a
Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto, pochi
giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito da
lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità che non
dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che il modo, da me
sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io
dissi, quasi nel principio di questo discorso, come le minacce
offendono più i principi, e sono cagione di più efficace
congiure che le offese: da che uno principe si debbe guardare;
perché gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro;
e non li ridurre mai in termine che gli abbiano a pensare che bisogni
loro o morire o far morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o
da variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che esequisce, o da
errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o per non dare
perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano
ammazzare. Dico, adunque, come e' non è cosa alcuna che faccia
tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli uomini, quanto
è in uno instante, sanza avere tempo, avere a variare un ordine
e a pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se questa
variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra,
ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali
azioni non è cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini
fermino gli animi loro ad esequire quella parte che tocca loro: e se
gli uomini hanno volto la fantasia per più giorni ad uno modo e
ad uno ordine, e quello subito varii, è impossibile che non si
perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che gli è
meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si
vegga qualche inconveniente, che non è, per volere cancellare
quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e' non
si ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si
può l'uomo governare a suo modo.
La congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è
nota. L'ordine dato era che dessino desinare al cardinale di San
Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi
aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la
città e chiamare alla libertà il popolo. Accadde che,
essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il
Cardinale ad uno ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non
vi desinava: il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello
che gli avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in
chiesa. Il che venne a perturbare tutto l'ordine, perché
Giovambatista da Montesecco non volle concorrere all'omicidio, dicendo
non lo volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi
ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a fermare l'animo,
fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria
viltà dello esecutore. È tanta la maestà e la
riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli
è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno esecutore.
A Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo
ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla
memoria del nome suo, divenuto vile, perdé ogni forza ad
ucciderlo. E se questa potenza è in uomo legato e prigione, ed
affogato nella mala fortuna; quanto si può tenere che la sia
maggiore in uno principe sciolto, con la maestà degli ornamenti,
della pompa e della comitiva sua! talché ti può questa
tale pompa spaventare, o vero con qualche grata accoglienza raumiliare.
Congiurorono alcuni contro a Sitalce re di Tracia, deputorono il
dì della esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il
principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si
partirono sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se
gli avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale
errore più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono
pena di quello male che potettono e non vollono fare. Congiurarono
contro a Alfonso, duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano
Giannes, prete e cantore del duca; il quale più volte, a loro
richiesta, condusse il duca fra loro, talché gli avevano
arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì
di farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività
e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da altro,
se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qualche
umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecuzioni
inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo;
perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato
da quella confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non
debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio
dimostrare Tito Livio quando discrive di Alessameno etolo, quando ei
volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato; che,
venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello
che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole: «Collegit et
ipse animum, confusum tantae cogitatione rei». Perché gli
è impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla
morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però
si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno
altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello
animo nelle cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno
che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa confusione o
farti cascare l'armi di mano, o farti dire cose che facciano il
medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo, ordinò che
Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella entrata
dello anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli, gridò:
- Questo ti manda il Senato! - le quali parole fecero che fu prima
preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da
Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de'
Medici, nello accostarsegli disse: - Ah traditore! - la quale voce fu
la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non si
dare perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per
le cagioni dette: ma facilmente non se le dà perfezione quando
si congiura contro a due capi, anzi è tanto difficile, che gli
è quasi impossibile che la riesca. Perché fare una simile
azione in uno medesimo tempo in diversi luoghi, è quasi
impossibile; perché in diversi tempi non si può fare, non
volendo che l'una guasti l'altra. In modo che, se il congiurare contro
ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente;
congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non
fosse la riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse
possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a
Saturnino centurione, che elli solo ammazzasse Severo ed Antonino,
abitanti in diversi paesi: perché la è cosa tanto
discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me
lo farebbe credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni
di Atene. Ammazzarono Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò.
Chione e Leonide eraclensi e discepoli di Platone, congiurarono contro
a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che
restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi
allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo che di
simili congiure contro a più capi, se ne debbe astenere
ciascuno, perché non si fa bene né a sé né
alla patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono
più insopportabili e più acerbi; come sa Firenze, Atene
ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che
Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le
difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché
Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro
a dieci, non solamente non era confidente e non gli era facile la
entrata a e' tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire
in Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco
fece tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere de' tiranni, dal
quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno,
nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella fu
impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così fu, ed
è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come cosa rara e
quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale esecuzione da
una falsa immaginazione o da uno accidente imprevisto che nasca in su
'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano
ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo
Popilio Lenate, uno de' congiurati; e vedendo gli altri questo lungo
parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la
congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non
aspettare che fosse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il
ragionamento finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno
istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da
considerarle, ed avervi, con prudenza, rispetto; e tanto più,
quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua
conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui: puossi
sentire una parola, detta ad uno altro fine, che ti faccia perturbare
l'animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con la
fuga scoprire la congiura da te, o confondere l'azione con acceleralla
fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quando ei
sono molti ad essere conscii della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono inisperati, non si può
se non con gli esempli mostrarli, e fare gli uomini cauti secondo
quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fatto
menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva tolto la
figliuola che prima gli aveva data per moglie, diliberò
d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno
a vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case
di Iulio. Costui, adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi
congiurati in casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e,
messisi dentro all'uscio armati, teneva uno alla finestra, che,
passando Pandolfo, quando ei fussi presso all'uscio, facessi un cenno.
Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno,
riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che
erano con lui, vennono a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il
romore d'arme, scopersono l' agguato; in modo che Pandolfo si
salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena.
Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece
a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e'
son rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene
necessario esaminare tutti quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo
la esecuzione: i quali sono solamente uno; e questo è, quando e'
rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono, adunque,
rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si
aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negligenzia o per
le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta: come intervenne
a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi
congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo
figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il morto. E
veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché non
ci hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o
per loro negligenza, allora è che non meritano scusa.
Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore,
presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non
parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano della
fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina (che
così si chiamava la contessa) promisse ai congiurati, che, se la
lasciavano entrare in quella, di farla consegnare loro, e che
ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi. Costoro,
sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come fu dentro,
dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli
d'ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi
figliuoli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo
che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di
consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio
patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che
possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più
certo né quello che sia più da temere, che quando il
popolo è amico del principe che tu hai morto: perché a
questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non se
ne possono mai assicurare. In esemplo ci è Cesare, il quale, per
avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perché,
avendo cacciati i congiurati, di Roma, fu cagione che furono tutti, in
varii tempi e in varii luoghi, ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per
coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi:
perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle;
nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve ne
è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti:
perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza
manifestare lo animo e disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini
non gli sono interrotti, seguire felicemente la impresa sua; se gli
sono interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare per altra
via. Questo s'intende in una republica dove è qualche parte di
corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo luogo
nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino
questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e molte
vie aspirare al principato dove e' non portano pericolo di essere
oppressi: sì perché le republiche sono più tarde
che uno principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute;
sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini
grandi, e per questo quelli sono più audaci e più animosi
a fare loro contro. Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta
da Sallustio, e sa come, poi che la congiura fu scoperta, Catilina non
solamente stette in Roma, ma venne in Senato, e disse villania al
Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella città
aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch'egli era di
già in su gli eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli
altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano
manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando
alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di
avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa
intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che d'una legge, la
quale poneva termini alle spese de' conviti e delle nozze: tanto fu il
rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene vero,
che nello esequire una congiura contro alla patria, vi è
difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade
volte è che bastino le tue forze proprie conspirando contro a
tanti; e ciascuno non è principe d'uno esercito, come era Cesare
o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le forze
loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai
facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante aggiunte di
forze, conviene che facciano le cose, o con inganno ed arte, o con
forze forestiere. Quanto allo inganno ed all'arte, avendo Pisistrato
ateniese vinti i Megarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo,
uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità
per invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di potere menare
armati seco per guardia sua. Da questa autorità facilmente salse
a tanta grandezza, che diventò tiranno di Atene. Pandolfo
Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in Siena, e gli fu data
la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica, e che gli
altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono
tanta riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe.
Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio
di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con forze
loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per occupare la patria,
hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna. Catilina preallegato vi
rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo menzione, non gli
essendo riuscito il veleno, armò, di suoi partigiani, molte
migliaia di persone, e loro ed elli furono morti. Alcuni primi
cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono in aiuto uno esercito
spartano, e presono la tirannide di quella città. Tanto che,
esaminate tutte le congiure fatte contro alla patria, non ne troverrai
alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono
riuscite o sono rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono,
ancora non portano altri periculi che si porti la natura del principato
in sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i
suoi naturali ed ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli
quali non ha altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e
se io ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col
veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è che
quelle del veneno sono più pericolose, per essere più
incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e bisogna
conferirlo con chi la ha, e questa necessità del conferire ti fa
pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno beveraggio di veleno non
può essere mortale: come intervenne a quelli che ammazzarono
Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli avevano dato,
furono forzati a strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno,
pertanto, i principi il maggiore nimico che la congiura: perché,
fatta che è una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli
infama. Perché, se la riesce, e' muoiono; se la si scuopre, e
loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia stata
invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la
crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha
morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o
quella republica contro a chi fosse congiurato, che abbino avvertenza,
quando una congiura si manifesta loro, innanzi che facciano impresa di
vendicarla, cercare ed intendere molto bene la qualità di essa,
e misurino bene le condizioni de' congiurati e le loro; e quando la
truovino grossa e potente, non la scuoprino mai, infino a tanto che si
siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni
industria dissimularla; perché i congiurati, veggendosi
scoperti, cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In
esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di
soldati a guardia de' Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo,
congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i Capovani:
la quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio nuovo Consolo che
vi provvedesse; il quale, per addormentare i congiurati,
pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze alle legioni
capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo loro avere tempo
ad esequire il disegno loro, non cercarono di accelerare la cosa; e
così stettono infino che cominciarono a vedere che il Consolo
gli separava l'uno dall'altro: la quale cosa generò in loro
sospetto, fece che si scopersono e mandarono ad esecuzione la voglia
loro. Né può essere questo maggiore esemplo nell'una e
nell'altra parte: perché per questo si vede, quanto gli uomini
sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e quanto e' sono presti
dove la necessità gli caccia. Né può uno principe
o una republica, che vuole differire lo scoprire una congiura a suo
vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo, occasione
con arte ai congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo
loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha
fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di
Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed
intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti
la cosa, pigliare uno de' congiurati: il che fece subito pigliare
l'armi agli altri; e torgli lo stato. Guglielmo, sendo commessario in
Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in Arezzo era una
congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella terra ai
Fiorentini, subito se n'andò in quella città, e sanza
pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e, sanza prepararsi di
alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo figliuolo, fece pigliare
uno de' congiurati: dopo la quale presura, gli altri subito presono
l'armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e Guglielmo, di commessario,
diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono
e debbono sanza rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in
alcuno modo due termini usati, quasi contrari l'uno all'altro, l'uno
dal prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di
avere la benivolenza de' cittadini fiorentini, fece morire uno che gli
manifestò una congiura; l'altro da Dione siragusano, il quale,
per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto,
consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di
farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male:
perché l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi
volesse congiurare, l'altro dette la via facile alla morte sua, anzi fu
elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza
gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare
contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo stato e la vita.
7
Donde nasce che le mutazioni
dalla libertà alla
servitù, e dalla servitù
alla libertà, alcuna ne
è sanza sangue,
alcuna ne è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si
fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne
faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le istorie si
comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati morti infiniti
uomini, alcuna volta non è stato ingiurato alcuno: come
intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non
furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di
qualunque altro. Il che depende da questo: perché quello stato
che si muta, nacque con violenza, o no: e perché, quando e'
nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di molti, è
necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino
vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte
degli uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune
consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha
cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere
altri che il capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata
de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi
nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E
così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose: ma
sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno
a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che
altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi esempli ne
sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
8
Chi vuole alterare una republica,
debbe considerare il suggetto di
quella.
Egli si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non
può male operare in una republica che non sia corrotta: la quale
conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dissono, con
lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale Spurio,
essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità
istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti
beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto
agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto
recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli
quelli danari che si erano ritratti dei grani che il publico aveva
fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a quello
che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà. Ma se
tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e
gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto
maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante
costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone
opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una brutta
cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui
per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e
venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del
vivere della città, non esaminando il suggetto, quale esso
aveva, non atto a ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti
in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la
perfezione di quella città, e la bontà della materia sua:
perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che
fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a favorirlo;
nessuno de' parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri
accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti mesti
per accattare misericordia in favore dello accusato, e con Manlio non
se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire
le cose che pareva venissono in beneficio del popolo; e quanto erano
più contro a' nobili, tanto più le tiravano innanzi; in
questo caso si unirono co' nobili, per opprimere una comune peste. Il
popolo di Roma desiderosissimo dell'utile proprio, ed amatore delle
cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a
Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che
rimessono la causa sua al giudicio del popolo, quel popolo, diventato
di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte.
Pertanto io non credo che sia esemplo in questa istoria, più
atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella
Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella
città si mosse a difendere uno cittadino pieno d'ogni
virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime
opere laudabili. Perché in tutti loro poté più lo
amore della patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto
più a' pericoli presenti che da lui dependevano che a' meriti
passati: tanto che con la morte sua e' si liberarono. E Tito Livio
dice: «Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus
esset, memorabilis». Dove sono da considerare due cose: l'una,
che per altri modi si ha a cercare gloria in una città corrotta,
che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è quasi
quel medesimo che la prima), che gli uomini nel procedere loro,
è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i
tempi, e accommodarsi a quegli.
E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si
discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed
hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l'hanno quegli che si
concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole preallegate dello
istorico, si può conchiudere, che, se Manlio fusse nato ne'
tempi di Mario e di Silla, dove già la materia era corrotta e
dove esso arebbe potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe
avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e Silla, e
gli altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così
medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio,
sarebbero stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché
un uomo può bene cominciare con suoi modi e con suoi tristi
termini a corrompere uno popolo di una città, ma gli è
impossibile che la vita d'uno basti a corromperla in modo che egli
medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene e' fussi possibile, con
lunghezza di tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo
del procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono
lungamente differire una loro passione. Appresso, s'ingannano nelle
cose loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché,
o per poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro
a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a volere
pigliare autorità in una republica e mettervi trista forma,
trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di
generazione in generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi
si conduce di necessità, quando la non sia, come di sopra si
discorse, spesso rinfrescata di buoni esempli, o con nuove leggi
ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo
raro e memorabile, se e' fussi nato in una città corrotta. E
però debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna
impresa o in favore della libertà o in favore della tirannide,
considerare il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la
difficultà delle imprese loro. Perché tanto è
difficile e pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere
servo, quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere
libero. E perché di sopra si dice, che gli uomini nell'operare
debbono considerare le qualità de' tempi e procedere secondo
quegli, ne parlereno a lungo nel sequente capitolo.
9
Come conviene variare co' tempi
volendo sempre avere buona fortuna.
Io ho considerato più volte come la cagione della trista e della
buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere
suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini nelle opere
loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione.
E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si passano e'
termini convenienti, non si potendo osservare la vera via, nell'uno e
nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna
prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo, e
sempre mai si procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno sa come
Fabio Massimo procedeva con lo esercito suo rispettivamente e
cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni audacia romana, e la
buona fortuna fece che questo suo modo riscontrò bene con i
tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia, giovane e con
una fortuna fresca, ed avendo già rotto il popolo romano due
volte; ed essendo quella republica priva quasi della sua buona milizia,
e sbigottita; non potette sortire migliore fortuna, che avere uno
capitano il quale, con la sua tardità e cauzione, tenessi a bada
il nimico. Né ancora Fabio potette riscontrare tempi più
convenienti a' modi suoi: di che ne nacque che fu glorioso. E che Fabio
facessi questo per natura, e non per elezione, si vide, che, volendo
Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare la guerra,
Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva spiccare da'
suoi modi e dalla consuetudine sua; talché, se fusse stato a lui
Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello che non si avvedeva che
gli erano mutati i tempi, e che bisognava mutare modo di guerra. E se
Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella guerra;
perché non arebbe saputo variare, col procedere suo, secondo che
variavono i tempi: ma essendo nato in una republica dove erano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi
debiti a sostenere la guerra, così ebbe poi Scipione, ne' tempi
atti a vincerla.
Quinci nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più
lungamente buona fortuna, che uno principato, perché la
può meglio accomodarsi alla diversità de' temporali, per
la diversità de' cittadini che sono in quella, che non
può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a
procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene
di necessità che, quando e' si mutano i tempi disformi a quel
suo modo, che rovini.
Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tutte le cose sue
con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua patria,
mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere suo: ma come
e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava rompere la pazienza e la
umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con la sua
patria rovinò. Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del
suo pontificato con impeto e con furia; e perché gli tempi
l'accompagnarono bene gli riuscirono le sua imprese tutte. Ma se
fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio, di
necessità rovinava; perché no arebbe mutato né
modo né ordine nel maneggiarsi. E che noi non ci possiamo
mutare, ne sono cagioni due cose: l'una, che noi non ci possiamo
opporre a quello che ci inclina la natura; l'altra, che, avendo uno con
uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile
persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce
che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed
elli non varia i modi. Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non
si variare gli ordini delle republiche co' tempi; come lungamente di
sopra discorremo: ma sono più tarde, perché le penono
più a variare, perché bisogna che venghino tempi che
commuovino tutta la republica, a che uno solo, col variare il modo del
procedere, non basta.
E perché noi abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a
bada Annibale, mi pare da discorrere nel capitolo sequente, se uno
capitano, volendo fare la giornata in ogni modo col nimico, può
essere impedito, da quello, che non lo faccia.
10
Che uno capitano
non può fuggire la giornata,
quando l'avversario la vuol fare
in ogni modo.
«Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens
se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies,
et locus alienus, faceret». Quando e' séguita uno errore,
dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non credo che
sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di sopra
più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi sieno
disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo
al presente replicarlo. Perché, se in alcuna parte si devia
dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni militari, dove al
presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi
erano stimate assai. Ed è nato questo inconveniente,
perché le republiche ed i principi hanno imposta questa cura ad
altrui; e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo
esercizio: e se pure si vede qualche volta uno re de' tempi nostri
andare in persona, non si crede, però, che da lui nasca altri
modi che meritino più laude. Perché quello esercizio,
quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non per alcuna altra
laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro
eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di loro il titolo
dello imperio, che non fanno le republiche, e massime le italiane; le
quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di
quello che appartenga alla guerra; e, dall'altro canto, volendo, per
parere d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale
deliberazione mille errori. E benché di alcuno ne abbi discorso
altrove, voglio al presente non ne tacere uno importantissimo. Quando
questi principi oziosi, o republiche effeminate, mandono fuora uno loro
capitano, la più savia commissione che paia loro dargli,
è quando gl'impongono che per alcuno modo venga a giornata,
anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in
questo, imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il
combattere, salvò lo stato ai Romani, non intendono che, la
maggiore parte delle volte, questa commissione è nulla o
è dannosa. Per che si debbe pigliare questa conclusione: che uno
capitano, che voglia stare alla campagna, non può fuggire la
giornata, qualunque volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E non
è altro questa commissione che dire: fa' la giornata a posta del
nimico, e non a tua. Perché a volere stare in campagna, e non
fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi
cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie,
che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro
partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro
di questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si lascia in
preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà
più tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare la
guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è la
perdita manifesta; perché e' conviene che, riducendoti con uno
esercito in una città, tu venga ad essere assediato, ed in poco
tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la
giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne
Fabio Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai
sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti
a trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che
Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la volessi fare a
suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio
l'arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma Annibale non
ardì mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la
giornata fu fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di
loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro non vi aveva se non uno
de' tre rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille
esempli, e massime nella guerra che i Romani feciono con Filippo di
Macedonia, padre di Perse: perché Filippo, sendo assaltato dai
Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non vi venire,
volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e si pose
con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte, dove si
afforzò assai, giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di
andare a trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel
monte; ed egli, non potendo resistere, si fuggì con la maggiore
parte delle genti. E quel che lo salvò che non fu consumato in
tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che i Romani non
poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed
essendosi posto con il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed
avendo conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere,
non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo
rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto
molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una
provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i
Romani partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello
allungare la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e
che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano oppressi,
deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e così venne
con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non
combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo
esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè
avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti a
trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua sanza
avere preso molto piè, dove e' patisca necessità del
vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che
dice Tito Livio: «nolens se fortunae committere adversus hostem,
quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Ma in
ogni altro termine non si può fuggire giornata, se non con tuo
disonore e pericolo. Perché fuggirsi, come fece Filippo,
è come essere rotto; e con più vergogna, quanto meno si
è fatto pruova della tua virtù. E se a lui riuscì
salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese
come egli. Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo
dirà ed essendo allo incontro di Scipione in Affrica, s'egli
avessi veduto vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe fatto; e
per avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo
arebbe potuto fare, come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto,
si debbe credere che qualche cagione importante lo movessi.
Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga
che per difetto di danari o d'amici e' non può tenere lungamente
tale esercito, è matto al tutto se non tenta la fortuna innanzi
che tale esercito si abbia a risolvere: perché, aspettando e'
perde il certo; tentando, potrebbe vincere.
Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è
che si debbe, eziandio perdendo, volere acquistare gloria; e più
gloria si ha, ad essere vinto per forza, che per altro inconveniente
che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale doveva essere
constretto da queste necessità. E dall'altro canto, Scipione,
quando Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato
l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti, non pativa, per avere di
già vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi
poteva stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non
interveniva ad Annibale, quando era all'incontro di Fabio; né a
questi Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo
esercito assalta il paese altrui; perché, se vuole entrare nel
paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro,
azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto
più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo
di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da'
Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia,
che, campeggiando Novara, fu medesimamente da' Svizzeri rotto.
11
Che chi ha a fare con assai,
ancora che sia inferiore,
pure che possa sostenere gli primi
impeti,
vince.
La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu
grande; e fu necessaria, come molte volte da noi è stato
discorso, perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno
all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo
innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno,
perché in ogni cosa, come altre volte si è detto,
è nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi accidenti,
è necessario a questo con nuovi ordini provvedere. Essendo,
pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente, e
formidabile alla Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato
qualche inconveniente, dannoso alla libertà romana, se da Appio
Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si avevano a
difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono
sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o
amatore del comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla
volontà di quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna
deliberazione contro alla volontà del Senato. Il quale rimedio
fu un grande temperamento a tanta autorità, e per molti tempi
giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare che,
qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente
ancora che tutti insieme siano molto più potenti di quello,
nondimanco si debbe sempre sperare più in quel solo e men
gagliardo che in quelli assai, ancora che gagliardissimi.
Perché, lasciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo
si può, più che molti, prevalere (che sono infinite),
sempre occorrerà questo: che potrà, usando un poco
d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era gagliardo, fare
debole. Io non voglio in questo addurre antichi esempli, che ce ne
sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi
nostri.
Congiurò nel 1483 tutta Italia contro ai Viniziani; e
poiché loro al tutto erano persi, e non potevano stare
più con lo esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico
che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo, nel
quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono parte dello
stato di Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra,
restarono superiori nella pace. Pochi anni sono, congiurò contro
a Francia tutto il mondo: nondimeno, avanti che si vedesse il fine
della guerra, Spagna si ribellò da' confederati, e fece accordo
seco; in modo che gli altri confederati furono constretti, poco dipoi,
ad accordarsi ancora essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre
mai fare giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro
ad uno, che quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale
virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi
aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse così,
porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i
quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed
avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati
contro, averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da
potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a
separarne alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto
ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro amico, e così Spagna: e
molto volentieri l'uno e l'altro di questi due principi arebbero
salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per non la fare
sì grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano, dunque, i
Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono
fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità, ed
innanzi ai moti della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era
vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti,
pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi
vedere il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio
di questo discorso, conchiudo: che così come il Senato romano
ebbe rimedio per la salute della patria contro all'ambizione de'
Tribuni, per essere molti, così arà rimedio qualunque
principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei saprà
con prudenza usare termini convenienti a disgiungerli.
12
Come uno capitano prudente
debbe imporre ogni necessità
di combattere a' suoi soldati,
e, a quegli degli inimici, torla.
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la
necessità, ed a quale gloria siano sute condutte da quella; e,
come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la
lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non
arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane a
quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non
fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli
eserciti la virtù di tale necessità, e quanto per quella
gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere; facevano ogni
opera perché i soldati loro fussero constretti da quella; e,
dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli nimici se ne
liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella via che
loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono quella
che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che desidera o che una
città si defenda ostinatamente, o che uno esercito in campagna
ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di
mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale necessità. Onde
uno capitano prudente, che avesse a andare ad una espugnazione d'una
città, debbe misurare la facilità o la difficultà
dello espugnarla, dal conoscere e considerare quale necessità
constringa gli abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi
assai necessità che gli constringa alla difesa, giudichi la
espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce
che le terre, dopo la rebellione, sono più difficili ad
acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel
principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere offeso,
si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate,
avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono difficili ad
essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e' naturali odii che
hanno i principi vicini, e le republiche vicine, l'uno con l'altro: il
che procede da ambizione di dominare e gelosia del loro stato,
massimamente se le sono republiche, come interviene in Toscana; la
quale gara e contenzione ha fatto e farà sempre difficile la
espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini
della città di Firenze ed i vicini della città di
Vinegia, non si maraviglierà, come molti fanno, che Firenze
abbia più speso nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia:
perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre
vicine sì ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per
essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno
principe, e non libere; e quegli che sono consueti a servire, stimono
molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano.
Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più
potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha
potuto più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo
circundata da tutte città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando egli
assalta una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a'
difensori di quella, tale necessità, e, per consequenzia, tale
ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se
gli avessono paura della libertà, mostrare di non andare contro
al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la
quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle
terre. E benché simili colori sieno facilmente conosciuti, e
massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i
popoli, i quali, cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a
qualunque altro laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per
questa via infinite città sono diventate serve: come intervenne
a Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo
esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de' Parti,
le quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi
soldati del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati,
accecati dalle offerte della pace che erano fatte loro da' loro
inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di quello. Dico
pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo,
per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i campi de' confederati
romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a chiedere pace,
offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli autori
de' tumulti e della preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in
Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio, capitano allora dello
esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò come
i Romani volevono in ogni modo guerra, e, benché per loro si
desiderasse la pace, necessità gli faceva seguire la guerra
dicendo queste parole: «Iustum est bellum quibus necessarium, et
pia arma quibus nisi in armis spes est»; sopra la quale
necessità egli fondò con gli suoi soldati la speranza
della vittoria. E per non avere a tornare più sopra questa
materia, mi pare di addurci quelli esempli romani che sono più
degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito, all'incontro de'
Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato dentro agli
steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di quegli;
e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti
gli aditi del campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono
a combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero
tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non
fusse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come, mentre
la necessità costrinse i Veienti a combattere, e' combatterono
ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via, pensarono più
a fuggire che a combattere.
Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini
romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel
travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo Vezio
Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati
suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo come
gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi
soldati queste parole: «Ite mecum; non murus nec vallum, armati
armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est,
necessitate superiores estis». Sì che questa
necessità è chiamata da Tito Livio «ultimum ac
maximum telum». Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani
romani, sendo già dentro nella città de' Veienti con il
suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tôrre ai
nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in
modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono
disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella
città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti
capitani osservato.
13
Dove sia più da confidare,
o in uno buono capitano
che abbia lo esercito debole,
o in uno buono esercito che abbia
il capitano debole.
Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci;
dove contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se
ne venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la
piatà della sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il
quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la
Republica romana crebbe più per la virtù de' capitani che
de' soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati
vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E
benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti
luoghi della sua istoria la virtù de' soldati sanza capitano
avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e
più feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che
morissono: come occorse nello esercito che i Romani avevano in Ispagna
sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté, con la
virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il
nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché,
discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la
virtù de' soldati arà vinta la giornata; e molti altri,
dove solo la virtù de' capitani arà fatto il medesimo
effetto: in modo che si può giudicare, l'uno abbia bisogno
dell'altro, e l'altro dell'uno.
Ècci bene da considerare, prima, quale sia più da temere,
o d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono capitano
accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di
Cesare, si debbe estimare poco l'uno e l'altro. Perché, andando
egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo
esercito, disse che gli stimava poco, «quia ibat ad exercitum
sine duce», mostrando la debolezza de' capitani. Al contrario,
quando andò in Tessaglia contro a Pompeio, disse: «Vado ad
ducem sine exercitu».
Puossi considerare un'altra cosa: a quale è più facile, o
ad uno buono capitano fare uno buono esercito, o ad uno buono esercito
fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare decisa:
perché più facilmente molti buoni troverranno o
instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà uno
molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto
inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai
capi ottimi, lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani,
per difetto di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a
Sempronio Gracco, il quale in poco tempo fece uno buon esercito.
Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta
Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco tempo
fecero, de' contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non
solamente sostenere la milizia spartana ma vincerla. Sì che la
cosa è pari, perché l'uno buono può trovare
l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole diventare
insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia
dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle
guerre civili. Tanto che io credo che sia più da confidare assai
in uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodità
di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario
fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la laude a
quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma,
prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro
instruire lo esercito loro, e farlo buono: perché in questi si
mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale ferità
fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai
che non sono.
14
Le invenzioni nuove,
che appariscono nel mezzo della zuffa,
e le voci nuove che si odino,
quali effetti facciano.
Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente
che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai
luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella zuffa che i
Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de'
corni del suo esercito, cominciò a gridare forte, che gli
stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era
vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e
sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene
ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli
fanno grandissimi, perché il tutto è mosso da simile
vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile, occorso ne' tempi
nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in due
parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i
quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in
alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una
notte entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se
ne venivano per pigliare la piazza. E perché quella città
in su tutti i canti delle vie ha catene che la tengono sbarrata,
avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di ferro
rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero
passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed
essendo già levato il romore all'armi, ed essendo colui che
rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né potendo
per questo alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare,
gli venne detto: - Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in
grado dicendo «addietro!», cominciò a fare fuggire
gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro
medesimi si ruppono: e così restò vano il disegno degli
Oddi, per cagione di sì debole accidente.
Dove è da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito
sono necessari per potere ordinatamente combattere quanto perché
ogni minimo accidenti non ti disordini. Perché, non per altro le
moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perché
ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli fuggire. E
però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe
ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla
ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se non a
quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui
è commesso; perché, non osservata bene questa parte, si
è visto molte volte avere fatti disordini grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne
apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo
a' suoi e tolgalo agli inimici; perché, intra gli accidenti che
ti diano la vittoria, questo è efficacissimo. Di che se ne
può addurre per testimone Caio Sulpizio, dittatore romano; il
quale venendo a giornata con i Franciosi, armò tutti i
saccomanni e gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli
ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli
messe sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad
uno segno dato, nel tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si
scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così
ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la
giornata. E però uno buono capitano debbe fare due cose: l'una,
di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di sbigottire il
nimico; l'altra, di stare preparato che, essendo fatte dal nimico
contro di lui, le possa scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece
il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono
numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa
n'era copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche,
e, quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma
conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non
solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati,
i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su
l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con
fuochi in su le lance, acciocché i Romani, occupati dalla
novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che
è da notare, che, quando tali invenzioni hanno più del
vero che del fitto, si può bene allora rappresentarle agli
uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si può
scoprire così presto la debolezza loro: ma quando le hanno
più del fitto che del vero, è bene, o non le fare o,
faccendole, tenerle discosto, di qualità che le non possino
essere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de'
mulattieri. Perché, quando vi è dentro debolezza,
appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore;
come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali
benché nel principio turbassono un poco lo esercito, nondimeno,
come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli, dicendo
che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che
dovessono rivoltarsi a loro; gridando: «Suis flammis delete
Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis»;
tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori
della zuffa.
15
Che uno e non molti
sieno preposti ad uno esercito,
e come i più comandatori
offendono.
Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i
Romani avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a
questo insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de' quali
lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai
Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e
disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del
disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione
la virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine,
ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché un solo
riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce la
inutilità di molti comandadori in uno esercito, o in una terra
che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più
chiaramente dire che con le infrascritte parole: «Tres Tribuni
potestate consulari documento fuere, quam plurium imperium bello
inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii aliud
videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti».
E benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che
fanno nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre alcuno
altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di
Milano, mandò le sue genti a Pisa per ristituirla ai Fiorentini;
dove furono mandati commessari Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio
degli Albizi. E perché Giovambatista era uomo di riputazione, e
di più tempo, Luca al tutto lasciava governare ogni cosa a lui:
e s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava
col tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che
non aiutava le azioni del campo né con l'opere né con il
consiglio, come se fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi
tutto il contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito,
se n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò
quanto con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le quali
tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di nuovo
addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il quale,
referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi Quinzio ed
Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta l'amministrazione della
guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice: «Saluberrimum in
administratione magnarum rerum est, summam imperii apud unum
esse». Il che è contrario a quello che oggi fanno queste
nostre republiche e principi di mandare ne' luoghi, per amministrargli
meglio, più d'uno commessario e più d'uno capo: il che fa
una inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni della rovina
degli eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la
potissima essere stata questa. E puossi conchiudere veramente, come
egli è meglio mandare in una ispedizione uno uomo solo di
comunale prudenzia, che due valentissimi uomini insieme con la medesima
autorità.
16
Che la vera virtù si va
ne' tempi difficili, a trovare;
e ne' tempi facili, non gli uomini
virtuosi,
ma quegli che per ricchezze
o per parentado hanno più
grazia.
Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in
una republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perché, per
la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù
d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che
vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E di
questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il
quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la
guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e
quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che
la disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in
disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che
la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico,
pensavono all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma
Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e la
maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perché gli fusse
prestato fede, adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si
facesse questa guerra, e' consigliava cosa che non faceva per lui;
perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti
cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra,
sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche è questo
disordine, di fare poca stima de' valenti uomini, ne' tempi quieti. La
quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno per vedersi mancare del
grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e superiori uomini
indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale disordine nelle
republiche ha causato di molte rovine; perché quegli cittadini
che immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono
cagione i tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli,
movendo nuove guerre in pregiudicio della republica. E pensando quali
potessono essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno, mantenere i
cittadini poveri, acciocché con le ricchezze sanza virtù
e' non potessino corrompere né loro né altri, l'altro, di
ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e
sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi
primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città sempre
eserciti, sempre vi era luogo alla virtù degli uomini; né
si poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad uno
che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche volta,
per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo disordine e
pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le altre
republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra
quando la necessità le costringe, non si possono difendere da
tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e sempre ne
nascerà disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso,
sia vendicativo, ed abbia nella città qualche riputazione e
aderenzia. E la città di Roma uno tempo fece difesa; ma a quella
ancora, poiché l'ebbe vinto Cartagine ed Antioco (come altrove
si disse), non temendo più le guerre, pareva potere commettere
gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto alla
virtù, quanto alle altre qualità che gli dessono grazia
nel popolo. Perché si vide che Paulo Emilio ebbe più
volte la ripulsa nel consolato, né fu prima fatto consolo che
surgesse la guerra macedonica; la quale giudicandosi pericolosa, di
consenso di tutta la città fu commessa a lui.
Sendo nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 di
molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini tutti una cattiva
pruova, si riscontrò a sorte la città in uno che
mostrò come si aveva a comandare agli eserciti; il quale fu
Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose, tutta
l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella elezione del
commessario e capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; ma come
si ebbe a fare una guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e
grado, e' vi trovò tanti competitori, che, avendosi ad eleggere
tre commessari per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E
benché e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al
publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare
facilissima coniettura; perché, non avendo più i Pisani
da defendersi né da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero
stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de'
Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano né
stringergli né sforzargli, furono tanto intrattenuti che la
città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a
forza. Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava
ch'e' fussi bene paziente e buono, a non disiderare di vendicarsene, o
con la rovina della città, potendo, o con l'ingiuria di alcuno
particulare cittadino. Da che si debbe una republica guardare; come nel
seguente capitolo si discorrerà.
17
Che non si offenda uno,
e poi quel medesimo si mandi
in amministrazione e governo
d'importanza.
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna
importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna
notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si partì dallo
esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne
andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per combattere con
Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era trovato per
lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in
luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con
suo disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente
tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di
sotto, e tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa,
saputa a Roma, gli dette carico grande appresso a il Senato ed al
popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella
città, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi
fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il
soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma
stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove
della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale
cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una
estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà di
Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli
riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e
se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario
fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella città ed a
quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente
offeso. E quando queste passioni di tali offese possono tanto in uno
cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta, si
debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra
città che non sia fatta come era allora quella. E perché
a simili disordini che nascano nelle republiche non si può dare
certo rimedio, ne seguita che gli è impossibile ordinare una
republica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la
sua rovina.
18
Nessuna cosa è più degna
d'uno capitano,
che presentire i partiti del nimico.
Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e
più utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e'
partiti del nimico. E perché tale cognizione è difficile,
merita tanto più laude quello che adopera in modo che le
coniettura. E non tanto è difficile intendere i disegni del
nimico, ch'egli è qualche volta difficile intendere le azioni
sue; e non tanto le azioni che per lui si fanno discosto, quanto le
presenti e le propinque. Perché molte volte è accaduto
che, sendo durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere
perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto
diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come
intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la
guerra; perché, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette
Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e
disperatosi, per questo errore, della salute, ammazzò sé
stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a Santa
Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la
notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi,
avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il
quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di
ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche
errare, e per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e
di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della vittoria, passò
il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi
che erano vittoriosi.
Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi.
Dove, sendo Sempronio consolo con lo esercito allo incontro
degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella
giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e
venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non
ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si
ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e
lo esercito romano si divise in due parti: l'una ne andò col
Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virtù del
quale lo esercito romano quel giorno non era stato rotto interamente.
Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza intendere altro de' nimici,
si tirò verso Roma; il simile fece lo esercito degli Equi:
perché ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e
però ciascuno si ritrasse sanza curare di lasciare i suoi
alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello
esercito romano, ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli
Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli
alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entrò
negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi saccheggiò
quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale
vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese
i disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e' può spesso
occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano
nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessità; e
che quello resti poi vincitore che è il primo ad intendere le
necessità dello altro.
Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498,
quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e
stringevano forte quella città; della quale avendo i Viniziani
presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, diliberarono
di divertire quella guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di
Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona,
ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di
Castiglione, che è in sul colle di sopra. Il che sentendo i
Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze
avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove
genti a cavallo, le mandarono a quella volta: delle quali ne furono
capi Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da
Marciano. Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra
Marradi, si levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi
tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due
eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di
vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno
d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno dell'altro,
deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli
alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano
verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello.
Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad
avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si partì del borgo
di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per la vecchiezza
e per la povertà, desiderosa di vedere certi suoi che erano in
quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine,
come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova,
gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i
nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli
ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro che
dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale
notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a'
nostri il medesimo effetto.
19
Se a reggere una moltitudine
è più necessario
l'ossequio che la pena.
Era la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de'
plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli
eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo
nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto si
fuggì della sua provincia; Quinzio, per essere benigno e di
umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria.
Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una moltitudine, essere
umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al
quale molti altri scrittori acconsentano in una sua sentenza conchiude
il contrario, quando ait: «In multitudine regenda plus poena quam
obsequium valet». E considerando come si possa salvare l'una e
l'altra di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti
sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti.
Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la pena,
né quella severità di che ragiona Cornelio; e
perché la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la
Nobilità, non poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con
crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che
migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare dagli
eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si
facevano istraordinariamente temere; se già e' non erano
accompagnati da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma
chi comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché
non doventino insolenti, e che per troppa tua facilità non ti
calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che all'ossequio.
Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio;
perché farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno
principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba de'
sudditi: perché del sangue, quando non vi sia sotto ascosa la
rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non necessitato, e
questa necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la
rapina viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio
di spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è
largamente discorso. Meritò adunque, più laude Quinzio
che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini suoi, e non ne'
casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.
E perché noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non mi
pare superfluo mostrare, come uno esemplo di umanità poté
appresso i Falisci più che l'armi.
20
Uno esemplo di umanità
appresso i Falisci
potette più che ogni forza
romana.
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci,
e quella assediando, uno maestro di scuola de' più nobili
fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cammillo ed
il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori
della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e
presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe
nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da
Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di
dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo
fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra. La
quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro la
umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere
più difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è da
considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa
più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di
carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte
quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti
bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di
umanità e di piatà, di castità o di
liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a
questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano
cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di
Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che aveva fatta ai
Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a
Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la
espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di
castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta
al suo marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la
Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia desiderata da'
popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da
quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano
come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai in
dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a
Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di
sé, né di superbo, né di crudele, né di
lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli
uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi,
avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel
seguente capitolo, donde questo nasca.
21
Donde nacque che Annibale,
con diverso modo di procedere
da Scipione
fece quelli medesimi effetti in Italia
che quello in Ispagna.
Io estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come qualche
capitano, nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita, abbia
nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti nel modo
soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie non
dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non ti rechino
né più forza né più fortuna, potendosi per
contrari modi acquistare gloria e riputazione. E per non mi partire
dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio quello che io ho
voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con
quella sua umanità e piatà subito farsi amica quella
provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli. Vedesi, allo incontro,
entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari, cioè con
crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione infideltà,
fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna;
perché, a Annibale, si ribellarono tutte le città
d'Italia, tutti i popoli lo seguirono.
E pensando donde questa cosa possa nascere, ci si vede dentro
più ragioni. La prima è, che gli uomini sono desiderosi
di cose nuove; in tanto che così disiderano il più delle
volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno
male: perché, come altra volta si disse, ed è il vero,
gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque,
questo desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si fa
capo d'una innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono
dietro; s'egli è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e
favorisconlo: talmenteché, in qualunque modo elli proceda, gli
riesce il fare progressi grandi in quegli luoghi. Oltre a questo, gli
uomini sono spinti da due cose principali; o dallo amore, o dal timore:
talché, così gli comanda chi si fa amare, come lui che si
fa temere; anzi, il più delle volte è più seguito
e più ubbidito chi si fa temere che chi si fa amare.
Importa, pertanto, poco ad uno capitano, per qualunque di queste vie e'
si cammini, pure che sia uomo virtuoso, e che quella virtù lo
faccia riputato intra gli uomini. Perché, quando la è
grande, come la fu in Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti
quegli errori che si fanno per farsi troppo amare o per farsi troppo
temere. Perché dall'uno e dall'altro di questi due modi possono
nascere inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe:
perché colui che troppo desidera essere amato, ogni poco che si
parte dalla vera via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera
troppo di essere temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa
odioso. E tenere la via del mezzo non si può appunto,
perché la nostra natura non ce lo consente: ma è
necessario queste cose che eccedono mitigare con una eccessiva
virtù, come faceva Annibale e Scipione. Nondimeno si vide come
l'uno e l'altro furono offesi da questi loro modi di vivere, e
così furono esaltati.
La esaltazione di tutti a due si è detta. L'offesa, quanto a
Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono,
insieme con parte de' suoi amici: la quale cosa non nacque da altro che
da non lo temere; perché gli uomini sono tanto inquieti, che,
ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione, dimenticano subito
ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità
sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per
rimediare a questo inconveniente, fu costretto usare parte di quella
crudeltà che elli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci
è esemplo alcuno particulare, dove quella sua crudeltà e
poca fede gli nocesse: ma si può bene presupporre che Napoli, e
molte altre terre che stettero in fede del popolo romano, stessero per
paura di quella. Viddesi bene questo che quel suo modo di vivere impio,
lo fece più odioso al popolo romano, che alcuno altro inimico
che avesse mai quella Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che
egli era con lo esercito in Italia, manifestarono quello che lo voleva
avvelenare, ad Annibale mai, ancora che disarmato e disperso,
perdonarono, tanto che lo fecioro morire. Nacquene, adunque, ad
Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele, queste
incommodità; ma gliene risultò allo incontro una
commodità grandissima, la quale è ammirata da tutti gli
scrittori: che, nel suo esercito, ancoraché composto di varie
generazioni di uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né
infra loro medesimi, né contro di lui. Il che non potette
dirivare da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il
quale era tanto grande, mescolato con la riputazione che gli dava la
sua virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo,
dunque, come e' non importa molto in quale modo uno capitano si
proceda, pure che in esso sia virtù grande che condisca bene
l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è detto,
nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando da una
virtù istraordinaria non sia corretto. E se Annibale e Scipione,
l'uno con cose laudabili, l'altro con detestabili, feciono il medesimo
effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere ancora di due
cittadini romani, che conseguirono con diversi modi, ma tutti a due
laudabili, una medesima gloria.
22
Come la durezza di Manlio Torquato
e la comità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima
gloria.
E' furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio
Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di pari
trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in quanto si
apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono, ma quanto
si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti de' soldati,
diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni
generazione di severità sanza intermettere a' suoi soldati o
fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall'altra parte, con ogni modo
e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza,
gl'intratteneva. Per che si vide, che, per avere l'ubbidienza de'
soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno
fece il medesimo frutto, e contro a' nimici ed in favore della
republica e suo. Perché nessuno soldato non mai o
detrattò la zuffa o si ribellò da loro o fu, in alcuna
parte, discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl'imperi di
Manlio fussero sì aspri, che tutti gli altri imperi che
eccedevano il modo, erano chiamati «manliana imperia». Dove
è da considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto
procedere sì rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio
potette procedere sì umanamente l'altro, quale cagione fe' che
questi diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale
sia di loro meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera
bene la natura di Manlio d'allora che Tito Livio ne comincia a fare
menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e
verso la patria, e reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si
conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre contro
al Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e'
n'andò al Consolo con queste parole: «Iniussu tuo adversus
hostem nunquam pugnabo, non si certam victoriam videam». Venendo,
dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di
trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa
comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che le sono, vuole si
osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si comanda
cose aspre, conviene con asprezza farle osservare; altrimenti, te ne
troverresti ingannato. Dove è da notare, che a volere essere
ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno
comandare, che fanno comparazione dalle qualità loro a quelle di
chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono proporzione, allora comandino;
quando sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con
violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che era
sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato
fusse più forte che il violentante, si poteva dubitare che ogni
giorno quella violenza cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti,
conviene essere forte; e quello che è di questa fortezza e che
le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non
è di questa fortezza d'animo, si debbe guardare dagl'imperi
istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità.
Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe, ma
alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio
fusse costretto procedere sì rigidamente dagli straordinari suoi
imperi, a' quali lo inclinava la sua natura: i quali sono utili in una
republica, perché e' riducono gli ordini di quella verso il
principio loro, e nella sua antica virtù. E se una republica
fusse sì felice, ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo,
chi con lo esemplo suo le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse
che la non corresse alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe
perpetua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de'
suoi imperi ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima
dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che
il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto,
Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si
osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La
quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e non
era faticosa a osservarla, e non necessitava Valerio a punire i
transgressori: sì perché non ve n'era; sì
perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è
detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del
principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni
umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati,
e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e l'altro la
medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il medesimo
effetto. Possono quelli che volessero imitare costoro, cadere in quelli
vizi di dispregio e di odio che io dico, di sopra, di Annibale e di
Scipione: il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te,
e non altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi modi di procedere sia
più laudabile. Il che credo sia disputabile, perché gli
scrittori lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno, quegli che scrivono
come uno principe si abbia a governare, si accostano più a
Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di molti
esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che
dice di Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo
contro ai Sanniti, e venendo il dì che doveva combattere,
parlò a' suoi soldati con quella umanità con la quale ei
si governava; e dopo tale parlare, Tito Livio dice quelle parole:
«Non alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites
omnia haud gravate mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum
velocitatis viriumque inter se aequales certamina ineunt, comiter
facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari parem qui
se offerret; factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis
alienae, quam suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius est)
quibus artibus petierat magistratus, iisdem gerebat». Parla
medesimamente, di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la
sua severità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo
esercito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo romano
ebbe contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale
vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri
tutti i pericoli che il popolo romano vi corse, e le difficultà
che vi furono a vincere fa questa conclusione: che solo la virtù
di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E faccendo comparazione
delle forze dell'uno e dell'altro esercito, afferma come quella parte
arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché
considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe
difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte
indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le leggi d'una
republica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il
procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in favore
del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione privata;
perché tale modo non si può acquistare partigiani,
mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il bene commune;
perché chi fa questo, non si acquista particulari amici, quali
noi chiamiamo, come di sopra si disse, partigiani. Talmenteché,
simile modo di procedere non può essere più utile
né più disiderabile in una republica; non mancando in
quello la utilità publica, e non vi potendo essere alcun
sospetto della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio
è il contrario: perché, se bene in quanto al publico si
fanno e' medesimi effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni per
la particulare benivolenza che colui si acquista con i soldati, da fare
in uno lungo imperio cattivi effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione
non essere ancora gli animi de' Romani corrotti, e quello non essere
stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo a
considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci accostereno
al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe debbe
cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo amore. La
ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere
tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità,
l'umanità, la piatà, e l'altre parti che erano in
Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo essere
uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo esercito suo
partigiano, si conforma con tutte l'altre parti dello stato suo: ma in
uno cittadino che abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma
già questa parte con l'altre sue parti, che lo hanno a fare
vivere sotto le leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo
le galee viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa differenza intra
quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed all'armi,
né si potendo la cosa quietare né per forza di ministri
né per riverenza di cittadini né timore de' magistrati;
subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era, l'anno
davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e
lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione
al Senato, che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per
morte, se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio
essere utile in uno principe e pernizioso in uno cittadino; non
solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi
preparano la via alla tirannide; a sé, perché in
sospettando la sua città del modo del procedere suo è
costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario,
affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in
uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte
offende; se già questo odio che ti reca la tua severità,
non è accresciuto da sospetto che l'altre tue virtù per
la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto, di Cammillo si
discorrerà.
23
Per quale cagione Cammillo
fusse cacciato di Roma.
Noi abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si nuoce
alla patria ed a sé; e, procedendo come Manlio, si giova alla
patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si pruova assai
bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo simigliava
più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio, parlando di lui,
dice, come «eius virtutem milites oderant, et mirabantur».
Quello che lo faceva tenere maraviglioso era la sollicitudine, la
prudenza, la grandezza dello animo, il buon ordine che lui servava
nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti: quello che lo faceva
odiare, era essere più severo nel gastigargli che liberale nel
rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di questo odio queste cagioni: la
prima, che i danari che si trassono de' beni de' Veienti che si
venderono, esso gli applicò al publico, e non gli divise con la
preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale
da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si
era voluto agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a
Apolline la decima parte della preda de' Veienti, la quale, volendo
sodisfare al voto, si aveva a trarre delle mani de' soldati che
l'avevano di già occupata. Dove si notano bene e facilmente
quelle cose che fanno uno principe odioso appresso il popolo; delle
quali la principale è privarlo d'uno utile. La quale è
cosa d'importanza assai, perché le cose che hanno in sé
utilità, quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai,
ed ogni minima necessità te ne fa ricordare; e perché le
necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno.
L'altra cosa è lo apparire superbo ed enfiato; il che non
può essere più odioso a' popoli, e massime a' liberi. E
benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse loro
alcuna incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che
uno principe si debbe guardare come da uno scoglio: perché
tirarsi odio addosso senza suo profitto, è al tutto partito
temerario e poco prudente.
24
La prolungazione degl'imperii
fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si
vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di quella
Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla legge agraria;
l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali cose se fussono state
conosciute bene da principio, e fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato
il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E
benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga
che in Roma nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto,
quanto nocé alla città quella autorità che i
cittadini per tali diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a
chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu
Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La
bontà del quale è di uno esemplo notabile, perché,
essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed
avendo la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni,
giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle
il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei,
prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò
questa diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare
di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo
esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e
prudenza se fosse stata in tutti i cittadini romani, non arebbe
lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati, e
da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii: la
quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a chi
fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo
alla città di Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e
parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli
mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il
primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per
utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma.
Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi,
tanto più parve loro tale prorogazione necessaria, e più
la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l'uno, che meno
numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e si venne per questo a
ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che, stando uno cittadino
assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo
partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il
Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono
trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per
questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non
avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano
sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi
gli acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella
servitù.
25
Della povertà di Cincinnato
e di molti cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si
ordini in uno vivere libero è che si mantenghino i cittadini
poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello
che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta
tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo
quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima
povertà; né si può credere che altro ordine
maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la povertà
non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e
come e' si andava a trovare la virtù in qualunque casa
l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco desiderabili le
ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo Minuzio
consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empié di
paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a
creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E
crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua
piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole
auree e celebrata da Tito Livio, dicendo: «Operae pretium est
audire, qui omnia prae divitiis humana spernunt, neque honori magno
locum, neque virtuti putant esse, nisi effusae affluant opes».
Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il
termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i Legati del Senato a
significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in quale
pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga,
venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare
Minuzio, ed avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non
volle che lo esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli
queste parole: - Io non voglio che tu participi della preda di coloro
de' quali tu se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del
consolato, e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto,
che tu impari a sapere essere Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de'
cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a
piede. Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla
povertà; e come a un uomo buono e valente, quale era Cincinnato,
quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale povertà
si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché, sendo
in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per
potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da'
suoi lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la
povertà, e come vi stavano dentro contenti, e come e' bastava a
quelli cittadini trarre della guerra onore, e l'utile tutto lasciavano
al publico. Perché, s'egli avessero pensato d'arricchire della
guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi campi fussono stati
guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di
quelli cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la
grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non
le republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e
tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle
piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli
loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo
patisca tale mutazione.
Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo
Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Republica,
dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno
mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava ancora la
povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene nella
guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu
il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo
parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che
la ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le
sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse
stata molte volte da altri uomini celebrata.
26
Come per cagione di femine
si rovina uno stato.
Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una
sedizione per cagione d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una
femina ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e non
avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo, la
madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne alle armi;
dove tutta la Nobilità si armò in favore del nobile, e
tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata la
plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto: i
nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno ad
Ardea, si accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i Volsci
infra la terra e loro; tanto che gli costrinsono, essendo stretti dalla
fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e morti
tutti i capi della sedizione, composono le cose di quella città.
Sono in questo testo più cose da notare. Prima, si vede come le
donne sono state cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran danni a
quegli che governano una città, ed hanno causato di molte
divisioni in quelle: e, come si è veduto in questa nostra
istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai
Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci
dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime cause che
mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per
conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o con rompere i
matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove noi trattamo delle
congiure, largamente si parlò. Dico, adunque, come i principi
assoluti ed i governatori delle republiche non hanno a tenere poco
conto di questa parte; ma debbono considerare i disordini che per tale
accidente possono nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia
con danno e vituperio dello stato loro o della loro republica: come
intervenne agli Ardeati; i quali, per avere lasciato crescere quella
gara intra i loro cittadini, si condussero a dividersi infra loro; e,
volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi esterni: il che
è uno grande principio d'una propinqua servitù.
Ma veniamo allo altro notabile, del modo del riunire le città;
del quale nel futuro capitolo parlereno.
27
Come e' si ha ad unire una
città divisa;
e come e' non è vera quella
opinione,
che, a tenere le città,
bisogni tenerle divise.
Per lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli
Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre una città
divisa: il quale non è altro, né altrimenti si debbe
medicare, che ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è
necessario pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono
costoro; o rimuovergli della città; o fare loro fare pace
insieme, sotto oblighi di non si offendere. Di questi tre modi, questo
ultimo è più dannoso, meno certo e più inutile.
Perché gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o
altre simili ingiurie, che una pace, fatta per forza, duri,
riveggendosi ogni dì insieme in viso; ed è difficile che
si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere infra
loro ogni dì, per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore esemplo che la
città di Pistoia. Era divisa quella città, come è
ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era
in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte dispute infra loro
vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba, e ad
ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre, sempre vi usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque
maggiori tumulti e maggiori scandali: tanto che, stracchi, e' si venne
al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni
messono in prigione alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che
l'accordo fatto potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma
sanza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma perché
simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso, una republica debole
non le sa fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si
conduce al rimedio secondo. E questi sono di quegli errori che io dissi
nel principio, che fanno i principi de' nostri tempi, che hanno a
giudicare le cose grandi; perché doverrebbono volere udire come
si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili
casi. Ma la debolezza de' presenti uomini, causata dalla debole
educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si giudicano i
giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro
moderne opinioni, discosto al tutto dal vero, come è quella che
dicevano e' savi della nostra città, un tempo fa: che bisognava
tenere Pistoia con le parti, e Pisa con le fortezze; e non si
avveggono, quanto l'una e l'altra di queste due cose è inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a
lungo; e voglio discorrere la inutilità che si trae del tenere
le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, egli è
impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti amiche, o
principe o republica che le governi. Perché dalla natura
è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e
piacergli più questa che quella. Talché, avendo una parte
di quella terra male contenta, fa che, la prima guerra che viene, te la
perdi; perché gli è impossibile guardare una città
che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è una republica che la
governi, non ci è il più bel modo a fare cattivi i tuoi
cittadini ed a fare dividere la tua città, che avere in governo
una città divisa; perché ciascuna parte cerca di avere
favori, e ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché ne
nasce due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai
amici, per non gli potere governare bene, variando il governo spesso,
ora con l'uno, ora con l'altro omore; l'altro, che tale studio di parte
divide di necessità la tua republica. Ed il Biondo, parlando de'
Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede, dicendo: «Mentre che i
Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia, divisono sé
medesimi». Pertanto, si può facilmente considerare il male
che da questa divisione nasca.
Nel 1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di
Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor
di Lant, mandato dal re di Francia a fare ristituire ai Fiorentini
tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni castello uomini
che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte di Marzocco,
biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in Francia uno
di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe
gastigato, perché tale voce non significherebbe altro, se non
che in quella terra fusse gente inimica del re, e quel re vuole che le
terre tutte sieno sue amiche, unite e sanza parte. Ma tutti questi modi
e queste opinioni diverse dalla verità, nascono dalla debolezza
di chi è signore; i quali, veggendo di non potere tenere gli
stati con forza e con virtù, si voltono a simili industrie: le
quali qualche volta ne' tempi quieti giovano qualche cosa, ma, come e'
vengono le avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia
loro.
28
Che si debbe por mente
alle opere de' cittadini,
perché molte volte sotto una
opera pia
si nasconde uno principio di
tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le
provisioni publiche a cessarla, prese animo uno Spurio Melio, essendo
assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione privatamente di
frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la quale cosa, egli
ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il Senato, pensando
all' inconveniente che di quella sua liberalità poteva nascere,
per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli
creò uno Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da
notare, come molte volte le opere che paiono pie e da non le potere
ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e per una republica sono
pericolosissime, quando le non siano a buona ora corrette. E per
discorrere questa cosa più particularmente, dico che una
republica sanza i cittadini riputati non può stare, né
può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro canto, la
riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle
republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente,
che i cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non nuoca,
alla città ed alla libertà di quella. E però si
debbe esaminare i modi con i quali e' pigliano riputazione; che sono in
effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno,
consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista
riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e
preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne
abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per
queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma
quando le sono prese per vie private, che è l'altro modo
preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private
sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col
prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati,
e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini
partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di
potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una
republica bene ordinata aprire le vie come è detto, a chi cerca
favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private,
come si vede che fece Roma perché in premio di chi operava bene
per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la
dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie
private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando
queste non bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di
falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio
facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per
punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci impunita,
è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con
quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
29
Che gli peccati de' popoli
nascono dai principi.
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli
ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati conviene che
naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di simili
errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono
stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che
sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di
simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa
Alessandro VI quegli signori che la comandavano, era un esempio d'ogni
sceleratissima vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere
cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla
tristitia di quelli principi; non dalla natura trista degli uomini,
come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e
volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e
quelle per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che
tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i
primi che davano cagione della inosservanza di esse, né mai
punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere
incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione,
non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la
pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i
popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano
impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi.
Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si dicano, de' quali era
cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando
e' narra che, portando i Legati romani il dono della preda de' Veienti
ad Apolline, furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia, e condotti
in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro principe, che dono era
questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque
nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era
impio occupare simile dono; tanto che, con il consenso dello
universale, ne lasciò andare i Legati con tutte le cose loro. E
le parole dello istorico sono queste: «Timasitheus multitudinem
religione implevit, quae semper regenti est similis». E Lorenzo
de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
E quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
Che nel signor son tutti gli occhi volti.
30
A uno cittadino
che voglia nella sua republica
fare di sua autorità alcuna
opera buona,
è necessario, prima, spegnere
l'invidia:
e come, vedendo il nimico,
si ha a ordinare la difesa d'una
città.
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo
deletto per venire a' danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici,
stati per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati con i
Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra dovere
essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di potestà
consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il Dittatore,
quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma dello
imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente: «Nec
quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum credebant, quod
maiestati eius concessissent». Onde Cammillo, presa a parole
questa ubbidienza, comandò che si scrivesse tre eserciti. Del
primo volle essere capo lui, per ire contro a' Toscani. Del secondo
fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma, per
ostare ai Latini ed agli Ernici, se si movessono. Al terzo esercito
prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere guardata la
città e difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse.
Oltre a di questo, ordinò che Orazio, uno de' suoi collegi,
provedesse l'armi ed il frumento e l'altre cose che richieggono i tempi
della guerra. Prepose Cornelio, ancora, suo collega, al Senato ed al
publico consiglio, acciocché potesse consigliare le azioni che
giornalmente si avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli
Tribuni, in quelli tempi, per la salute della patria, disposti a
comandare ed a ubbidire. Notasi per questo testo, quello che faccia uno
uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e'
possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e
virtù, egli ha spenta la invidia; la quale è molte volte
cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo detta
invidia che gli abbino quella autorità la quale è
necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi questa invidia in
due modi. O per qualche accidente forte e difficile, dove ciascuno,
veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad
ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo possa
liberare: come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé
tanti saggi di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte
Dittatore, ed avendo amministrato sempre quel grado ad utile publico, e
non a propria utilità aveva fatto che gli uomini non temevano
della grandezza sua; e per esser tanto grande e tanto riputato, non
stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però dice
Tito Livio saviamente quelle parole «Nec quicquam» ecc.) in
un altro modo si spegne l'invidia quando, o per violenza o per ordine
naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a
qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali, veggendoti riputato
più di loro, è impossibile che mai acquieschino, e stieno
pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi a vivere in una
città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro
alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno, mai
si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro
perversità d'animo sarebbero contenti vedere la rovina della
loro patria. A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che
la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto
propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa,
sanza scandalo, glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e'
può mostrare la sua virtù; ma quando e' non abbi questa
ventura, gli conviene pensare per ogni via a torsegli dinanzi; e prima
che e' facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi che vinca questa
difficultà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà
Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i
suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali,
non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a' disegni suoi.
Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola;
conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno non
potette vincerla, per non avere autorità a poterlo fare (che fu
il frate), e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano,
che ne arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase,
e le sue prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive
contro a loro: perché chiamava così questi invidi, e
quegli che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col
tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno,
spegnere questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con
tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere, che
credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano,
sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva che il tempo
non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna
varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto che
l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata
da non avere saputo o potuto vincere questa invidia.
L'altro notabile è l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori,
per la salute di Roma. E veramente, non sanza cagione gli istorici
buoni, come è questo nostro, mettono particularmente e
distintamente certi casi, acciocché i posteri imparino come gli
abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in questo testo
notare, che non è la più pericolosa né la
più inutile difesa, che quella che si fa tumultuariamente e
sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che Cammillo
fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della città:
perché molti arebbero giudicato e giudicherebbero questa parte
superflua, sendo quel popolo, per l'ordinario, armato e bellicoso; e
per questo, che non bisognasse di scriverlo altrimenti, ma bastasse
farlo armare quando il bisogno venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse
savio come era esso, la giudica altrimenti; perché non permette
mai che una moltitudine pigli l'arme, se non con certo ordine e certo
modo. E però, in su questo esemplo, uno che sia preposto a
guardia d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare
armare gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e
scelti quegli che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a
convenire, dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che
stieno ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno
questo ordine in una città assaltata, facilmente si potranno
difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e
non si difenderà.
31
Le republiche forti
e gli uomini eccellenti
ritengono in ogni fortuna
il medesimo animo
e la loro medesima dignità.
Intra l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a
Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente, gli
mette in bocca queste parole: «Nec mihi dictatura animos fecit,
nec exilium ademit». Per le quali si vede, come gli uomini grandi
sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con
esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono sempre lo
animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo del vivere loro, che
facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra
di loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli perché
invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene
che gli hanno a quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce
che diventano insopportabili ed odiosi a tutti coloro che gli hanno
intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte; la quale
come veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e diventano
vili ed abietti. Di qui nasce che i principi così fatti pensano
nelle avversità più a fuggirsi che a difendersi, come
quelli che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad ogni difesa
impreparati.
Questa virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo
solo, si truova ancora in una republica, ed in esemplo ci sono i Romani
ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
diventare abietti né nessuna buona fortuna gli fece mai essere
insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a
Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco;
perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata
la terza, non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono
riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad
Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste
cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra armando, per
carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La quale cosa conosciuta
da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò a quel
Senato quanto poco conto si aveva a tenere della rotta di Canne. E
così si vide come i tempi difficili non gli sbigottivono,
né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i tempi prosperi non
gli facevano insolenti: perché, mandando Antioco oratori a
Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla giornata,
e ch'egli avesse perduto Scipione gli dette certe condizioni della
pace; quali erano, che si ritirasse dentro alla Soria, ed il resto
lasciasse nello arbitrio del Popolo romano. Il quale accordo recusando
Antioco, e venendo alla giornata, e perdendola, rimandò
imbasciadori a Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle
condizioni erano date loro dal vincitore: alli quali non propose altri
patti che quegli si avesse offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo
queste parole: «Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur animis;
nec, si vincunt, insolescere solent».
Al contrario appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani: i
quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella
virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che
chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco; non stimavano la
Chiesa; non capivano in modo alcuno in Italia; ed eronsi presupposti
nello animo di avere a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi,
come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza
rotta a Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto
lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al
re di Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto
invilirono, che mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi
tributari, scrissono al papa lettere piene di viltà e di
sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicità
pervennono in quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché,
avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed
essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de'
Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con
più di venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo.
Talmenteché, se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata alcuna
qualità di virtù, facilmente si potevano rifare, e
rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere
o a perdere più gloriosamente, o ad avere accordo più
onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata dalla
qualità de' loro ordini non buoni nelle cose della guerra, gli
fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E sempre
interverrà così a qualunque si governa come loro.
Perché questo diventare insolente nella buona fortuna ed abietto
nella cattiva, nasce dal modo del procedere tuo, e dalla educazione
nella quale ti se' nutrito: la quale, quando è debole e vana, ti
rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende
anche d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore conoscitore del mondo,
ti fa meno rallegrare del bene, e meno rattristare del male. E quello
che si dice d'uno solo, si dice di molti che vivono in una republica
medesima; i quali si fanno di quella perfezione, che ha il modo del
vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti
gli stati è la buona milizia; e come, dove non è questa,
non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa
buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto
nel leggere questa istoria si vede apparire questa necessità; e
si vede come la milizia non puoté essere buona, se la non
è esercitata; e come la non si può esercitare, se la non
è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in
guerra, né si può starvi. Però conviene poterla
esercitare a tempo di pace; e con altri che con sudditi non si
può fare questo esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo
andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed
avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si
erano tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non
potere sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo questa mala
disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò
fuora, ed andando parlando per il campo a questi e quelli soldati,
trasse loro del capo questa opinione; e nello ultimo, sanza ordinare
altrimenti il campo, disse: «Quod quisque didicit, aut consuevit,
faciet». E chi considera bene questo termine, e le parole disse
loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non
si poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a
uno esercito che prima non fosse stato ordinato ed esercitato ed in
pace ed in guerra. Perché di quegli soldati che non hanno
imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e
credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse uno
nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno
capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha
prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che abbino lo
spirito suo e bene gli ordini e modi del procedere suo, conviene di
necessità che ci rovini. Se, adunque, una città
sarà armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai suoi
cittadini, ed in particulare ed in publico, tocchi a fare isperienza e
della virtù loro, e della potenza della fortuna;
interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano del
medesimo animo, e manterranno la medesima loro degnità: ma
quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti della
fortuna e non alla propria virtù, varieranno col variare di
quella, e daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i
Viniziani.
32
Quali modi hanno tenuti alcuni
a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue
colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di poi
i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano assai
cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al
Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano stati autori
della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si voltasse
sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace,
incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini
romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno
principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro
rimedio più vero né più stabile, che farli usare
qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che
l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto
quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore
commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono
con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati
in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne
andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio,
mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato
e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne
saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la
zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il
quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato
per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e
Mato obligare tutti quelli soldati a non sperare di avere mai
più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla guerra;
persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i
cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non
solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli
straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i
Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile
modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello
esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
33
Egli è necessario,
a volere vincere una giornata,
fare lo esercito confidente
ed infra loro e con il capitano.
A volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo
confidente, in modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le cose che
lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene; conoschinsi
l'uno l'altro. Né può nascere questa confidenza o questo
ordine, se non in quelli soldati che sono nati e vissuti insieme.
Conviene che il capitano sia stimato di qualità che confidino
nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino ordinato,
sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la
maestà del grado suo: e sempre la manterrà, quando gli
punisca degli errori, e non gli affatichi invano; osservi loro le
promesse; mostri facile la via del vincere; quelle cose che discosto
potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le alleggerisca. Le quali
cose, osservate bene, sono cagione grande che lo esercito confida, e
confidando vince. Usavano i Romani di fare pigliare agli eserciti loro
questa confidenza per via di religione: donde nasceva, che con gli
augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano
con gli eserciti, e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna
di queste cose, non mai arebbe uno buono capitano e savio tentata
alcuna fazione, giudicando di averla potuta perdere facilmente, s'e'
suoi soldati non avessoro prima intesi gli Dii essere da parte loro. E
quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combattuto, contro
agli auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E
benché questa parte in tutte le istorie romane si conosca,
nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio usa nella
bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia
de' Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii
e le altre cose pertinenti alla religione si corrompevano, dice
così: «Eludant nunc licet religiones. Quid enim interest,
si pulli non pascentur, si ex cavea tardius exiverint, si occinuerit
avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo, maiores nostri
maximam hanc rempublicam fecerunt». Perché in queste cose
piccole è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati:
la quale cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto,
conviene con queste cose sia accompagnata la virtù: altrimenti,
le non vagliano. I Prenestini, avendo contro ai Romani fuori el loro
esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume d'Allia, il luogo
dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per mettere
fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del
luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per quelle
ragioni che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa
mostrò che la vera virtù non teme ogni minimo accidente.
Il che lo istorico benissimo dice con queste parole, in bocca poste del
Dittatore, che parla così al suo Maestro de' cavagli:
«Vides tu, fortuna illos fretos ad Alliam consedisse; at tu,
fretus armis animisque, invade mediam aciem». Perché una
vera virtù, un ordine buono, una sicurtà presa da tante
vittorie, non si può con cose di poco momento spegnere;
né una cosa vana fa loro paura, né un disordine gli
offende: come si vede certo, che, essendo due Manlii consoli contro a'
Volsci, per avere mandato temerariamente parte del campo a predare, ne
seguì che, in un tempo, e quelli che erano iti e quelli che
erano rimasti si trovavono assediati; dal quale pericolo, non la
prudenza de' Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli
liberò. Dove Tito Livio dice queste parole: «Militum,
etiam sine rectore, stabilis virtus tutata est».
Non voglio lasciare indietro uno termine usato da Fabio, sendo entrato
di nuovo con lo esercito in Toscana, per farlo confidente, giudicando
quella tale fidanza essere più necessaria per averlo condotto in
paese nuovo, incontro a nimici nuovi: che, parlando avanti la zuffa a'
soldati, e detto ch'ebbe molte ragioni, mediante le quali ei potevono
sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora dire loro certe cose
buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso
il manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato,
così merita di essere imitato.
34
Quale fama o voce o opinione
fa che il popolo
comincia a favorire uno cittadino:
e se ei distribuisce i magistrati
con maggiore prudenza che un principe.
Altra volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato,
salvò Lucio Manlio suo padre da una accusa che gli aveva fatta
Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del
salvarlo fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella
filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo universale,
che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni
delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale
successo, credo che sia bene considerare il modo che tiene il popolo a
giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e che, per quello noi
veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si conchiuse, che il
popolo sia migliore distributore che uno principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello
che si dice d'uno per publica voce e fama, quando per sue opere note
non lo conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di
lui. Le quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che, per
essere stati grandi uomini e valenti nella città, si crede che i
figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto che per le opere
di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi
che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino
tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi, e
riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si
può avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con quali egli
usa; meritamente uno che usa con compagnie oneste, acquista buono nome,
perché è impossibile che non abbia qualche similitudine
di quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia
riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel
principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà maggiore che
questa ultima: perché quella prima de' parenti e de' padri
è sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in
poco si consuma, quando la virtù propria di colui che ha a
essere giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa conoscere per
via delle pratiche tue, è meglio della prima, ma è molto
inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si vede
qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su
l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella
terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera
tua, ti dà nel principio tanto nome, che bisogna bene che operi
poi molte cose contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono,
adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare questo verso,
ed ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a
rilevarsi. Il che molti a Roma in gioventù fecero o con il
promulgare una legge che venisse in comune utilità; o con
accusare qualche potente cittadino come transgressore delle leggi; o
col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a parlare.
Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi
la riputazione ma sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla.
Ed a volere fare questo, bisogna rinnovarle; come per tutto il tempo
della sua vita fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il
padre tanto virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione
presa la prima riputazione sua, dopo certi anni combatté con
quel Francioso, e, morto, gli trasse quella collana d'oro che gli dette
il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in
età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto
sanza licenza, ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre
azioni allora gli dettero più nome e per tutti i secoli lo fanno
più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra
vittoria, di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la
cagione è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe
moltissimi simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o
nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi,
quanto gli dette lo avere, ancora giovinetto, in sul Tesino, difeso il
padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada
sguainata fatto giurare più giovani romani che ei non
abbandonerebbero l'Italia, come di già infra loro avevano
diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione sua,
e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La quale
opinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei rimandò la sua
figliuola al padre, e la moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del
procedere non è necessario solamente a quelli cittadini che
vogliono acquistare fama per ottenere gli onori nella loro republica,
ma è ancora necessario ai principi per mantenersi la riputazione
nel principato loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare,
quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado,
conforme al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o
liberale o giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio intra
i suoi suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il
popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino,
fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male; ma
poi, quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno
più noto, si fonda meglio, perché in tale caso non
può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli
gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per
ferma isperienza siano conosciuti, o che passino da un'azione a
un'altra dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione, e quanto alla
corrozione, sempre faranno minori errori che i principi. E
perché e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della
fama, della opinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che
in verità non sono, il che non interverrebbe a uno principe,
perché gli sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi lo
consigliasse; perché ancora i popoli non manchino di questi
consigli, i buoni ordinatori delle republiche hanno ordinato, che,
avendosi a creare i supremi gradi nelle città, dove fosse
pericoloso mettervi uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare
essere diritta a creare alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a
ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria, di publicare nelle
concioni i difetti di quello, acciocché il popolo, non mancando
della sua conoscenza, possa meglio giudicare.
E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di Fabio
Massimo, la quale ei fece al popolo nella seconda guerra punica, quando
nella creazione de' Consoli i favori si volgevano a creare Tito
Ottacilio; e giudicandolo Fabio insufficiente a governare in quelli
tempi il consolato, gli parlò contro, mostrando la insufficienza
sua; tanto che gli tolse quel grado, e volse i favori del popolo a chi
più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella
elezione a' magistrati, secondo quelli contrassegni che degli uomini si
possono avere più veri; e quando ei possono essere consigliati
come i principi, errano meno de' principi: e quel cittadino che voglia
cominciare a avere i favori del popolo, debbe con qualche fatto
notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
35
Quali pericoli si portano
nel farsi capo a consigliare una cosa;
e, quanto ella ha più dello
istraordinario,
maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a
molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e, condotta, a
mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a discorrerla:
però, riserbandola a luogo più conveniente,
parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini, o
quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una diliberazione
grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia
imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine,
tutto il male che ne risulta s'imputa allo autore del consiglio; e, se
ne risulta bene, ne è commendato: ma di lunge il premio non
contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran
Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che
vengono de' suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di Egitto, fu
confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai confini di
Persia, di andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso
andò con esercito grossissimo a quella impresa; e arrivando in
uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade, e
trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare
molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi
perdé, per fame e per peste, ancora che nella guerra fosse
superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato contro allo
autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati
confortatori d'una impresa, e, per avere avuto quella tristo fine,
essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani,
che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che
uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli
consigliatori sarebbe avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto
gagliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazione era
venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una
republica, e quegli che consigliano uno principe, sono posti intra
queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili,
o per la città o per il principe, sanza rispetto, e' mancano
dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano in pericolo della
vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di
giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo
ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo
altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna
per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza
passione con modestia difenderla: in modo che, se la città o il
principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi venga
tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non
è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio
ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti:
perché quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i
quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se in
questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello essere solo
contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buono fine,
ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di pericolo; il
secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la
contradizione il tuo consiglio non sia preso e per il consiglio
d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria grandissima.
E benché la gloria che si acquista de' mali che abbia o la tua
città o il tuo principe, non si possa godere, nondimeno è
da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte:
perché consigliandogli che tacessono, e che non dicessono
l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro
principe, e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo
diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro intervenire come a
quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo stato rotto da
Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare
le cose passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti
errori fatti da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale
Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a
dirmelo ora che io non ho più rimedio! - e sopra queste parole
di sua mano lo ammazzò. E così colui portò la pena
d'essere stato cheto quando e' doveva parlare, e di avere parlato
quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere
dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i
termini soprascritti.
36
Le cagioni perché i Franciosi
siano stati e siano ancora giudicati
nelle zuffe, da principio più
che uomini
La ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano,
appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra
lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio più
volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più
che uomini, e nel successo del combattere riescono poi meno che femine.
E pensando donde questo nasca, si crede per molti che sia la natura
loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per
questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel principio, non si
potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci
infino nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e' sono di tre ragioni eserciti:
l'uno dove è furore ed ordine; perché dall'ordine nasce
il furore e la virtù, come era quello de' Romani: perché
si vede in tutte le istorie, che in quello esercito era un ordine
buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo tempo.
Perché in uno esercito, bene ordinato, nessuno debbe fare alcuna
opera se non regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello
esercito romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo, debbono
prendere esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si
dormiva, non si meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o
domestica sanza l'ordine del console. Perché quegli eserciti che
fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la
fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la
virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co' tempi,
né difficultà veruna lo invilisce, né li fa
mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo
ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non
manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario
interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine, come
erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano,
perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non
essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel
quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale
ei cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i
Romani, dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro buoni non
diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo
animo e con la medesima virtù nel fine che nel principio: anzi,
agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza qualità di
eserciti è dove non è furore naturale né ordine
accidentale: come sono gli eserciti italiani de' nostri tempi, i quali
sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per
qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri
esempli, si vede, ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere
alcuna virtù. E perché, con il testimonio di Tito Livio,
ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come
è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore,
quando ei voleva punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse:
«Nemo hominum, nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta
imperatorum, non auspicia observentur; sine commeatu vagi milites in
pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi
velint exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad
edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu
iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent:
latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia
sit». E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la
milizia de' nostri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e
solenne; e quanto le manca a essere simile a quella che si può
chiamare milizia; e quanto ella è discosto da essere furiosa ed
ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.
37
Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie;
e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.
E' pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo
discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere
condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia
qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che
pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo l'altro. E questo si
vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista
il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se' aiutato in
modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale
inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del
Francioso, dove Tito Livio dice: «Tanti ea dimicatio ad universi
belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide
Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit».
Perché io considero, dall'uno canto, che uno buono capitano
debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna cosa, che, essendo di poco
momento, possa fare cattivi effetti nel suo esercito: perché
cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi si
arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io
dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando vengono
allo incontro d'uno nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono
necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con
leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocché,
cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la
fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano
è importantissima; perché ella ha in sé quasi una
necessità che ti costringe a farla, parendoti andare ad una
manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con piccole isperienze, di
tôrre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione del
nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai
Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro mai non avevano provate
l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai
Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe «ne eos novum bellum,
ne novus hostis terreret». Nondimeno è pericolo
gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la
paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari
effetti a' disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo
disegnato di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose
che ha il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti
insieme, che gli è facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare
l'altro. Sopra che io dico, che uno buono capitano debbe osservare con
ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno accidente
possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può
tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però si
debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con
grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare
imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo:
non debbe guardare terre, se non quelle che, perdendole, di
necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda,
ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo esercito, che,
trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le
forze sue; l'altre debbe lasciare indifese. Perché ogni volta
che si perde una cosa che si abbandoni, e lo esercito sia ancora
insieme, non si perde la riputazione della guerra né la speranza
del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata
difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno
e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo
momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran
condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de' suoi
paesi, i quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e
guastò: come quello che, per essere prudente, giudicava
più pernizioso perdere la riputazione col non potere difendere
quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico
perderlo come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le
cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi
gli aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I
quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le
difendere: perché in questo partito si perde amici e forze; in
quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure
uno capitano è costretto per la novità del nimico fare
qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia
alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che
è migliore partito), il quale, andando contro a' Cimbri, popoli
ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con uno spavento
grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di
già vinto uno esercito romano, giudicò Mario essere
necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la
quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico
gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una
volta collocò lo esercito suo in luogo donde i Cimbri con lo
esercito loro dovessono passare. E così, dentro alle fortezze
del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed
assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché,
vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi
inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e diventassono
desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente
preso, così dagli altri debbe essere diligentemente imitato, per
non incorrere in quelli pericoli che io dico disopra, e non avere a
fare come i Franciosi, «qui ob rem parvi ponderis trepidi, in
Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt». E perché noi
abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante
le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno
capitano, dimostrare.
38
Come debbe essere fatto uno capitano
nel quale lo esercito suo possa
confidare.
Era, come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai
Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano: donde che, per assicurare i
suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a' suoi certe
leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla giornata,
parlare loro, e mostrò, con ogni efficacia, quanto ei dovevano
stimare poco tali nimici, allegando la virtù de' suoi soldati, e
la propria. Dove si può notare, per le parole che Livio gli fa
dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito abbia a
confidare; le quali parole sono queste: «Tum etiam intueri, cuius
ductu auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat
magnificus adhortator sit, verbis tantum ferox, operum militarium
expers, an qui et ipse tela tractare, procedere ante signa, versari
media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi
volo; nec disciplinam modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac
dextra mihi tres consulatus, summamque laudem peperi». Le quali
parole, considerate bene, insegnano a qualunque, come ei debbe
procedere a volere tenere il grado del capitano: e quello che
sarà fatto altrimenti, troverrà, con il tempo, quel
grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non
dargli riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini,
ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo discorso
considerare che, se gli capitani grandi hanno usati termini
istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito veterano quando con i
nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si abbia a
usare la industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia
mai veduto il nimico in viso! Perché, se lo inusitato inimico
allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente lo debbe
dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste difficultà con somma
prudenza essere vinte: come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda
tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi
vinsono eserciti veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi mesi esercitargli in battaglie
fitte e assuefargli alla ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi,
con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni
eserciti, quando non gli manchi uomini; perché quel principe,
che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente, non della
viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza,
dolersi.
39
Che uno capitano
debbe essere conoscitore de' siti.
Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti,
è la cognizione de' siti e de' paesi; perché, sanza
questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non
può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze
vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è una
che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa
particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che
per veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono
che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono
nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre a questa
cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie. E
Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad assaltare il
re d'Armenia, nel divisare quella fazione, ricordò a quegli
suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte
volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava in agguato
in su e' monti, che gli erano simili a quelli che andavano a tendere le
reti in su e' gioghi; ed a quelli che scorrevano per il piano, erano
simili a quegli che andavano a levare del suo covile la fiera,
acciocché, cacciata, desse nelle reti.
Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte
appruova, sono una immagine d'una guerra: e per questo agli uomini
grandi tale esercizio è onorevole e necessario. Non si
può ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro commodo
modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a colui che la
usa sapere come sta particularmente quel paese dove elli la esercita. E
fatto che uno si è familiare bene una regione, con
facilità comprende poi tutti i paesi nuovi; perché ogni
paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche conformità,
in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione
dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico uno, con difficultà,
anzi non mai se non con un lungo tempo, può conoscere l'altro. E
chi ha questa pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel
piano, come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tutte le
altre simili cose, di che elli ha per lo addietro fatto una ferma
scienza. E che questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo
di Publio Decio; il quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito
che Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il
Consolo ridotto in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai
Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al
Consolo: «Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx
illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere
Samnites) impigre capimus». Ed innanzi a queste parole, dette da
Decio, Tito Livio dice: «Publius Decius tribunus militum,
conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium castris aditu
arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem». Donde,
essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed
avendo salvo lo esercito romano e disegnando, venente la notte, di
partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi soldati, gli fa dire
queste parole: «Ite mecum, ut, dum lucis aliquid superest, quibus
locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc exitus, exploremus. Haec
omnia sagulo militari amicus ne ducem circumire hostes notarent,
perlustravit». Chi considerrà, adunque, tutto questo
testo, vedrà quanto sia utile e necessario a uno capitano sapere
la natura de' paesi: perché, se Decio non gli avesse saputi e
conosciuti, non arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare
quel colle, allo esercito Romano, né arebbe potuto conoscere di
discosto, se quel colle era accessibile o no; e condotto che si fu poi
sopra esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i
nimici intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello
andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto che, di
necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta:
la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei salvò lo
esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a salvare
sé e quegli che erano stati seco.
40
Come usare la fraude
nel maneggiare la guerra
è cosa gloriosa.
Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile,
nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa;
e, parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico,
come quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio
che ne fanno coloro che scrivono le vite degli uomini grandi; i quali
lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi
di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne
replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo
quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i
patti fatti; perché questa, ancora che la ti acquisti, qualche
volta, stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti
acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con
quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel
maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di
Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito
romano, e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna
dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che usò Ponzio capitano dei
Sanniti, per rinchiudere lo esercito romano dentro alle Forche Caudine:
il quale, avendo messo lo esercito suo a ridosso de' monti,
mandò più suoi soldati sotto veste di pastori con assai
armento per il piano; i quali sendo presi dai Romani, e domandati dove
era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine dato da
Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa,
creduta dai Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi
caudini; dove entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe
stata questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se
egli avesse seguitati i consigli del padre il quale voleva che i Romani
o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si
pigliasse la via del mezzo, «quae, neque amicos parat neque
inimicos tollit». La quale via fu sempre perniziosa nelle cose di
stato come di sopra in altro luogo si discorse.
41
Che la patria si debbe difendere
o con ignominia o con gloria;
ed in qualunque modo è bene
difesa.
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano
assediato da' Sanniti: i quali avendo posto ai Romani condizioni
ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il giogo, e disarmati
rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come attoniti, e
tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo, legato romano, disse che
non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare la
patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello
esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la patria è
bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con
gloria: perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a
cancellare la ignominia; non si salvando, ancora che gloriosamente
morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu
seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed
osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua:
perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non
vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né
d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di
laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto,
seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la
libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i
fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la
potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più
impazientemente che quella che dicesse: - Il tale partito è
ignominioso per il re -; perché dicono che il loro re non
può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o
in avversa fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono
essere cose da re.
42
Che le promesse fatte per forza,
non si debbono osservare.
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia
a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudio non si
doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il
popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene obligato esso e gli
altri che avevano promessa la pace: e però il popolo, volendosi
liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni nelle mani de' Sanniti
lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta ostinazione
tenne questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando
prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non
valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna,
che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio
appresso ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu
Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due
cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria,
perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella perdita
si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per tua
colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli:
l'altra è, che non è vergognoso non osservare quelle
promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le
promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la forza,
si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono
in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti
tempi, se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi
le promesse forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano
ancora tutte le altre promesse, quando e' mancano le cagioni che le
feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno
principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è
disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al
presente lo tacereno.
43
Che gli uomini,
che nascono in una provincia,
osservino per tutti i tempi
quasi quella medesima natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né
immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri
quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in
ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che
nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed
ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le
sortischino il medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere
loro ora in questa provincia più virtuose che in quella, ed in
quella più che in questa, secondo la forma della educazione
nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa
ancora facilità il conoscere le cose future per le passate;
vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o
continovamente avara, o continovamente fraudolente, o avere alcuno
altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate
della nostra città di Firenze, e considererà quelle
ancora che sono ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli
tedeschi e franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità
e d'infidelità; perché tutte queste quattro cose in
diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto alla
poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo VIII, ed
elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé.
In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma
lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso
quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino
contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli
altri ispedienti, pensò di condurre lo imperadore in Italia, il
quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse
lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a'
Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini
gli dessono centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse
in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i
primi danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne
tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere
restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra
loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla
necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti
gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa
né molte altre volte ingannata da loro; essendo loro stati
sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi
termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente a' Toscani, i quali
essendo oppressi dai Romani, per essere stati da loro più volte
messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere
resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua
dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che
fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai
Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non
vollono dipoi pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per
fare guerra con i loro nimici, ma perché si astenessino di
predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per
l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de'
loro danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché
si vede, per questo esemplo de' Toscani antichi, e per quello de'
Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e per questo
facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono
fidare di loro.
44
E' si ottiene con l'impeto e con
l'audacia
molte volte
quello che con modi ordinarii
non si otterrebbe mai.
Essendo i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con
lo esercito loro stare alla campagna a petto ai Romani, diliberarono
lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con tutto lo esercito
loro in Toscana, la quale era in triegua con i Romani; e vedere, per
tale passata, se ei potessono con la presenzia dello esercito loro
indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che avevano negato ai loro
ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai Toscani, nel
mostrare, massime, qual cagione gli aveva indotti a pigliare l'armi,
usarono uno termine notabile, dove dissono: «rebellasse, quod pax
servientibus gravior, quam liberis bellum esset». E così,
parte con le persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro,
gl'indussono a ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando
uno principe desidera ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la
occasione lo patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e fare in modo
che vegga la necessità della presta diliberazione; la quale
è quando colui che è domandato vede che dal negare o dal
differire ne nasca una subita e pericolosa indegnazione.
Questo termine si è veduto bene usare ne' nostri tempi da papa
Iulio con i Franciosi, e da monsignore di Fois capitano del re di
Francia col marchese di Mantova: perché papa Iulio, volendo
cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo, avere
bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani stessono neutrali; ed
avendone ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro risposta dubbia e
varia; diliberò col non dare loro tempo fare venire l'uno e
l'altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma con quelle tante genti
ch'ei poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai
Viniziani mandò a dire che stessono neutrali, ed al re di
Francia, che gli mandasse le forze. Talché, rimanendo tutti
distretti dal poco spazio di tempo, e veggendo come nel papa doveva
nascere una manifesta indegnazione differendo o negando, cederono alle
voglie sue, ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono
neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in
Bologna, ed avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla
ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re,
lunga e tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non
solamente era necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma
gli conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi, di che
è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi
erano serrate e guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare per
la più corta, e per vincere ogni difficultà né
dare tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti
per quella via, ed al marchese significò gli mandasse le chiavi
di quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita
diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe
mandate se Fois più trepidamente si fosse governato, essendo
quello marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno
suo figliuolo nelle mani del Papa; le quali cose gli davano molte
oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal subito partito, per le cagioni
che di sopra si dicono, le concesse. Così feciono i Toscani coi
Sanniti, avendo, per la presenza dello esercito di Sannio, preso quelle
armi che gli avevano negato, per altri tempi, pigliare.
45
Quale sia migliore partito nelle
giornate,
o sostenere l'impeto de' nimici,
e, sostenuto, urtargli;
ovvero da prima con furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro
degli eserciti de' Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed alla
giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale de' due
diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia migliore.
Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo
assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo
assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello
ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del combattere,
e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della
cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il
quale si straccò ne' primi impeti; in modo che, vedendo la banda
sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la
morte quella gloria alla quale con la vittoria non aveva potuto
aggiugnere, ad imitazione del padre sacrificò sé stesso
per le romane legioni. La quale cosa intesa da Fabio, per non
acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega acquistato
morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale
necessità riservate; donde ne riportò una felicissima
vittoria. Donde si vede che il modo del procedere di Fabio è
più sicuro e più imitabile.
46
Donde nasce
che una famiglia in una città
tiene un tempo i medesimi costumi.
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi
modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o
più effeminati, ma nella medesima città si vede tale
differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si riscontra
essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne
leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati
duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli
Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre
famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite
dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue,
perché conviene che varii mediante la diversità de'
matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che
ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un
giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una
cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione,
e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua
vita. E se questo non fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii
avessono avuto la medesima voglia, e fossono stati agitati dalle
medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo,
essendo uno di loro fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine
de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato,
Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni,
secondo la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra
questo se ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti,
non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla
volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi
leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno
della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le
bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire
alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
47
Che uno buono cittadino
per amore della patria
debbe dimenticare le ingiurie private.
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato
in una zuffa ferito, e per questo portando le genti sue pericolo,
giudicò il Senato essere necessario mandarvi Papirio Cursore
dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed essendo necessario
che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale era consolo con gli
eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non volesse
nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che,
posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo.
Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che
col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione
gli premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che
cercano di essere tenuti buoni cittadini.
48
Quando si vede fare
uno errore grande a uno nimico,
si debbe credere
che vi sia sotto inganno.
Essendo rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in
Toscana, essendo ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i Toscani,
per vedere se potevano avere quello alla tratta, posono uno aguato
propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati con veste di
pastori con assai armento, e li feciono venire alla vista dello
esercito romano: i quali così travestiti si accostarono allo
steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro
presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse
la fraude; e così restò il disegno de' Toscani rotto. Qui
si può commodamente notare, che uno capitano di eserciti non
debbe prestare fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare al
nimico: perché sempre vi sarà sotto fraude, non sendo
ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio
del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro che
quello pare facci per loro.
I Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e
trovando le porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno e
la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere che
fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne' petti romani, che
gli abbandonassono la patria. Quando nel 1508, stando li Fiorentini, a
campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prigione
de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero, che darebbe una
porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui libero: dipoi, per
praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i legati de'
commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed accompagnato da'
Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava con i Fiorentini.
Talmenteché si poteva conietturare il suo animo doppio;
perché non era ragionevole, se la pratica fosse stata fedele,
ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta. Ma il disiderio che
si aveva di avere Pisa, accecò in modo i Fiorentini, che,
condottisi con l'ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono
più loro capi ed altre genti, con disonore loro, per il
tradimento doppio che fece detto Alfonso.
49
Una republica,
a volerla mantenere libera,
ha ciascuno dì
bisogno di nuovi provvedimenti;
e per quali meriti Quinto Fabio
fu chiamato Massimo.
È di necessità, come altre volte si è detto, che
ciascuno dì in una città grande naschino accidenti che
abbiano bisogno del medico; e secondo che gl'importano più,
conviene trovare il medico più savio. E se in alcuna
città nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma e strani
ed insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le donne romane
avessono congiurato contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne
trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano preparato
il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de'
Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove
erano già inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se
la non si scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o
se pure i Romani non fussono stati consueti a gastigare le moltitudini
degli erranti: perché, quando e' non si vedesse per altri
infiniti segni la grandezza di quella Republica, e la potenza delle
esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena che la
imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via di
giustizia una legione intera per volta, ed una città; e di
confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non
essere osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a
quelli soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i quali
confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in
terra, e che mangiassono ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli eserciti,
dove a sorte, di tutto uno esercito, era morto di ogni dieci uno.
Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare più
spaventevole punizione di questa. Perché quando una moltitudine
erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si possono gastigare, per
essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si farebbe
torto a quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di
errare un'altra volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando
tutti lo meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non
è punito ha paura che un'altra volta non tocchi a lui, e
guardasi da errare.
Furono punite, adunque, le venefiche e le baccanali, secondo che
meritavano i peccati loro. E benché questi morbi in una
republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché
sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo
in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno prudente
corretti, rovinano la città.
Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare
la civiltà a' forestieri, nate tante genti nuove, che le
cominciavano avere tanta parte ne' suffragi, che il governo cominciava
variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era
consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che era Censore,
messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine,
sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in
sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene
conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio;
il quale fu tanto accetto a quella civiltà, ch'e' meritò
di essere chiamato Massimo.